giovedì 19 agosto 2010

La storia siamo noi - Hezbollah, il partito di Dio

Gli arabi sono usciti dalla storia - Intervista a Iskandar Habash

17/02/2009

Intervista a Iskandar Habash, giornalista e scrittore, sul ruolo dell'intellettuale nel mondo arabo

Iskandar Habash è scrittore, professore di filosofia e giornalista per le pagine del quotidiano libanese as-Safir. Ha scritto diversi saggi e raccolte di poesia. Di origine palestinese, è nato a Beirut, dove vive tuttora.

iskandar habashNella crisi attuale che attraversa il Medio Oriente e il mondo arabo in generale dove è l'intellettuale? E quale è il suo ruolo in queste società?

L'intellettuale arabo non può avere un ruolo nelle società arabe oggi perché è messo a margine sia dai regimi sia dall'affermazione sempre più forte dei partiti religiosi. Negli anni 1950-1960 si che l'intellettuale aveva un ruolo, poi ha fallito per varie ragioni. Una è che le società arabe non hanno saputo adattarsi alla modernità. Un'altra causa, da non dimenticare, è che la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 ha influito e indebolito molto i pochi intellettuali progressisti che ancora esistevano nel mondo arabo. I partiti religiosi hanno cominciato così ad affermarsi a spese dei partiti laici. In Libano è successo con l'affermazione di Hezbollah nei primi anni Ottanta. Dopo la decolonizzazione dei paesi arabi, gli intellettuali hanno avuto un grande ruolo, ma poi tutti i regimi arabi si sono trasformati in regimi militari o dittatoriali. Questi regimi non vogliono un sistema laico e progressista, preferiscono un sistema religioso anche estremista ma che possono controllare. Quale è il ruolo dell'intellettuale oggi? L'intellettuale scrive, ma non viene ascoltato. Le sue idee non circolano nella società.

Quanta influenza ha oggi la voce dell'intellettuale nel mondo arabo e in Libano in particolare?

Non hanno nessuna influenza. Sono i partiti religiosi che riescono a far scendere nelle strade milioni di persone, non un intellettuale. Poi appena un intellettuale comincia ad avere una certa influenza allora viene ucciso o messo in prigione. Quanti giornalisti sono stati uccisi in Libano tra il 2005-2006?

Quale è il rapporto tra l'intellettuale libanese e il sistema confessionale?

Abbiamo due tipi di intellettuali: c'è chi rifiuta il confessionalismo e resta dunque escluso dalla società, e c'è invece chi accetta e entra a far parte di questo sistema.

i funerali di samir kassir, giornalista libanese ucciso in un attentatoLa condizione araba attuale potrebbe essere il risultato di una reazione sbagliata all'irruzione della modernità in questo mondo?

Certo. Bisognerebbe come prima cosa 'modernizzare' questa società. Oggi nel mondo arabo ci sono moltissime persone analfabete. La società è molto indietro bisogna ammetterlo. E tutto questo indietreggiamento, questo takhalof, viene mascherato con cose futili e superficiali. L'unica idea condivisa da tutti è quella religiosa.

Crede che nel mondo arabo si legga abbastanza?

La società araba non legge e se vuoi qui c'è un paradosso. L'Islam dice: Iqra, leggi. I libri più venduti sono quelli di cucina, oroscopi e bellezza. Un romanzo vende 2mila copie in dieci anni. Immagina! Poi internet, al posto di essere un modo per veicolare la cultura, ha invece allontanato la gente dalla lettura. E poi la gente, se si interessa alla letteratura, si interessa a quella sacra.

Intellettuali come forze civili opposte ai governanti?

Non può costituire una forza civile. Alcuni fondatori di partiti importanti nel mondo arabo sono stati degli intellettuali come Michel Aflaq per il Ba'ath, trasformatosi poi in una dittatura, o Antoun Sa'adeh per il Partito nazional-socialista siriano, che ha fallito.

Cosa ne è della nahda, la rinascita letteraria araba?

Il problema è che la nahda non ha saputo oltrepassare l'idea di Dio. Dio non si può discutere. L'Islam ha bisogno di riforme. Vedi ad esempio il fatto che l'arabo è la lingua del Corano un testo rivelato da Dio non si può discutere sulla riforma della lingua. La lingua letteraria si è evoluta pochissimo Il dialetto, quello si, che si è evoluto. Ci vogliono circa dieci anni per creare un neologismo nella lingua araba.

E il futuro della società araba come lo vede?

Male, sono molto pessimista. Gli arabi sono usciti dalla storia. L'Europa produce e noi consumiamo. Questa società non può continuare cosi. Una rivoluzione sociale? La vedo difficile. La gente che si ribella lo fa arruolandosi nelle milizie dei vari partiti religiosi. Bisogna risolvere il problema della Palestina, questo è il grande problema del mondo arabo. Guarda, tutti i leader nei loro discorsi usano la causa palestinese per legittimarsi tra la gente, se il problema palestinese fosse risolto forse i vari regimi potrebbero cominciare a perdere la loro legittimità. Ma purtroppo attualmente non vedo nessuna soluzione!

Erminia Calabrese

Peacerepoerter - http://it.peacereporter.net/articolo/14282/Gli+arabi+sono+usciti+dalla+storia

Rai News - Intervista a JOUMANA HADDAD caporedattrice di JASAD

Scrivere con le unghie - Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad

05/06/2

Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad, caporedattrice della rivista Jasad

scritto per noi da
Linda Chiaramonte

Un'intelligenza acuta e una profonda capacità di analisi unite a grande sensibilità e sensualità contraddistinguono la giornalista e poetessa libanese Joumana Haddad. Donna che non ama i cliché, come dimostra la sua produzione, e che al contrario vuole ribaltarli. L'indipendenza e la libertà di pensiero sono le sue cifre stilistiche, anche a costo di risultare scomoda sostenendo posizioni impopolari.

La Haddad è fra le più importanti poetesse arabe contemporanee, dal dicembre scorso anche capo redattrice della rivista trimestrale Jasad (corpo in arabo), responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese an-Nahar, vincitrice del premio del giornalismo arabo nel 2006, autrice della raccolta di poesie Adrenalina, la prima pubblicata in Italia nelle scorse settimane dalle Edizioni del Leone. La rivista Jasad, specializzata nella letteratura e le arti del corpo in tutte le sue rappresentazioni, fra cui anche sessualità ed erotismo, argomenti tabù nel suo paese, la rendono un prodotto editoriale quasi rivoluzionario. Abbiamo incontrato Joumana Haddad a Bologna, ospite nei giorni scorsi della facoltà di Lingue, e le abbiamo rivolto alcune domande.

Dopo quanti anni arrivano in Italia le sue poesie?

Ho iniziato a scrivere a 12 anni, ho pubblicato il primo libro nel 1995, la prima traduzione in lingua straniera è del 2003. In tutti questi anni sono stata tradotta in inglese, francese, tedesco, spagnolo, mi pesava non esserlo ancora in italiano, lingua che amo molto.

Come definisce la sua poesia?

Scrivo con le mie unghie. Non è facile definire la mia scrittura, è un modo di scavare dentro di me, cioè dentro al mondo. Sono convinta che il mondo non sia fuori, ma dentro di noi. Scavare dentro di me mi aiuta a scoprirmi e a scoprire il mondo. Ognuno di noi è una folla, non una sola persona, e queste persone diverse a volte litigano fra loro, io le ascolto, e ascoltare queste voci e poter scrivere quello che dicono per me è la poesia.

Perché una rivista con al centro il tema del corpo, cosa l'ha spinta a farlo?

Il progetto, ideato 2 anni fa, è una sorta di figlio culturale. La rivista, di duecento pagine, distribuita in tutte le edicole del Libano, vende in zone in cui non ci si aspettava, come nella periferia sciita di Beirut. Fuori dal Libano arriva in abbonamento e molti lettori sono dell'Arabia Saudita, dove la rivista è censurata, sembrerebbe una contraddizione, in realtà non lo è. È logico che proprio in quei luoghi ci sia più curiosità. A volte la censura contribuisce alla distribuzione. La rivista non si occupa solo di sessualità e del corpo 'erotico', questa è solo una delle rappresentazioni, anche se è stata definita la prima rivista che parla di sesso nel mondo arabo. Di Jasad sono anche editrice, lo stampatore preferisce restare anonimo per evitare fastidi. Purtroppo non c'è pubblicità, ho finanziato il progetto da sola. Per me era importante che la rivista uscisse in formato cartaceo, per lanciare una sfida di concretezza, che fosse in arabo per il peso che ha la lingua, e che non avesse pseudonimi per un'assunzione di responsabilità nella scrittura. Collaborano freelance di tutto il mondo arabo: Siria, Egitto, Giordania, Marocco, Arabia Saudita, ci sono ancora poche donne. A spingermi a realizzarla è stato un bisogno. Ho sempre scritto sul tema del corpo, così quando ho deciso di avviare questo progetto editoriale, la scelta è stata naturale. Il fatto che risponda ad un bisogno è dimostrato dal successo di vendite, anche perché nel mondo arabo si è giunti ormai ad un punto in cui parlare di temi relativi al corpo è diventato un tabù. Non era così in passato, ci sono libri del X, XI secolo di un erotismo e di una libertà meravigliosi. Mi è sembrata un'ingiustizia per la lingua araba privarla di questa parte essenziale del suo vocabolario, del suo potenziale capace di esprimere certi concetti, ho voluto contribuire a far cambiare un po' le cose.

Crede di essere coraggiosa per averlo fatto?

No. Piuttosto sono una donna molto ostinata che continua a fare quello che vuole fare. Forse anche questo richiede coraggio, ma sono ostinazione e passione a spingermi.

Ha ricevuto minacce per i temi trattati dalla rivista, vero?

Ci sono abituata, già per le mie poesie sono oggetto di attenzione, ma non m'interessa. Con la rivista è più evidente visto che l'influenza di un giornale è più forte della poesia, anche se vorrei fosse il contrario. È normale che accada, ma finora non sento di correre pericoli. Non ho cambiato nulla nella mia vita e non voglio farlo. Ricevo sia lettere di sostegno che di insulti.

La rivista, che esce nelle edicole del Libano e solo in lingua araba, tratta però temi universali. Esiste una declinazione libanese del corpo?

Non è destinata solo al Libano, ma a tutto il mondo arabo. Non credo alla definizione del corpo libanese o arabo. Il corpo è il corpo, è un linguaggio universale, è proprio questa la sua bellezza. È una cosa che ci riguarda tutti. Quando si fa un incontro d'amore con una persona di cui non si parla la lingua, i corpi parlano e si capiscono, non c'è bisogno di parole e di altri punti comuni. Già questa è una lingua universale. La ragione per cui ho scelto l'arabo è per lanciare una sfida a questa società e a questa cultura che negano ad una lingua bellissima il diritto di esprimere certe cose. Non credo che il corpo libanese abbia delle particolarità necessariamente diverse, abbiamo i nostri problemi, ma ce ne sono alcuni che condividiamo con tutto il mondo, ad esempio la violenza fisica e psichica. La rivista non è fatta per il corpo degli arabi e non parla del corpo degli arabi, ma parla del corpo dagli arabi agli arabi. Ci sono diversi cliché sulla donna araba molto diffusi in occidente fra cui il velo, l'essere musulmana e sottomessa. Il pericolo che si corre per il Libano è anche quello di cadere in un anti cliché. È vero che nel mio paese, molto diverso dall'Arabia Saudita, ci sono tante contraddizioni e che ci sono donne emancipate, ma non lo sono per la legge. La realtà della donna libanese è difficile, piena di frustrazioni, oppressione, spesso chi vive la sua libertà lo fa in maniera superficiale, senza andare in fondo nelle battaglie sociali. Ricorrendo ad esempio ad un uso eccessivo della chirurgia estetica quasi come fosse uno strumento per conquistare emancipazione. Perciò non esiste una donna araba, non so se io lo sono, alcuni elementi tipici non si applicano a me. Ci sono molte idee formate che si vorrebbero confermare parlando di donna araba, ma ci sono ben 22 paesi arabi diversi, fatti di donne altrettanto diverse fra loro. Nel mio paese donne in minigonna camminano fianco a fianco a donne velate, le une vorrebbero imporre la loro visione alle altre e viceversa. L'importante è rispettare le differenze e il diritto ad essere come si vuole.

Quali sono gli elementi che accomunano tutte le donne, a tutte le latitudini oltre le barriere geografiche?

È questo che m'interessa, le cose che condividiamo non solo come donne ma come esseri umani, e sono tante. Che si sia di Beirut, Bologna o della Colombia, ci sono elementi universali: l'amore, la sofferenza, la perdita, la paura, tutto quello che fa un essere umano. A volte forse sento più punti comuni con un uomo nato 50 anni fa in un luogo che non ha niente a che vedere con il mondo arabo che con la mia vicina di casa che ha vissuto le mie stesse esperienze ed ha la mia stessa età. Il fatto di essere donne ci da una certa caratteristica, ma non è l'unica cosa che ci forma, ma sono il modo in cui viviamo le esperienze, guardiamo la vita, sogniamo. Cose queste che ci fanno trovare punti in comune con gente che si penserebbe molto lontana dal proprio modo di essere. Le cose superficiali, il luogo in cui si è nati, ciò che è scritto sulla carta d'identità, il colore degli occhi, che forse si condivide con molti della propria città, non fa che si sia simili. Nella poesia Donna parlo di una gabbia costruita da altri e questo è un tema universale. Ognuno di noi, uomo, donna, africano, colombiano, ha una gabbia intorno. Ognuno può riconoscersi in questi temi, può ritrovare se stesso. Mi ha emozionata il commento di un uomo che si è ritrovato in questa poesia in cui parlo di me. Significa che ho potuto realizzare quello a cui aspiro attraverso la mia scrittura: da donna scrivere per tutti e di tutto. Non solo trasmettere il mio essere donna, ma essendolo trasmettere il mio essere un essere umano che vive, pensa, sogna, soffre, pianifica, che si sente frustrata o in una gabbia e che cerca di fuggire. La gabbia può essere politica, sociale, psichica, fisica, anche che ci si è costruiti da soli. Cosa in cui noi esseri umani abbiamo molto talento.

Jasad è una rivista araba, scritta in arabo e fatta da idee arabe. Fatta da dentro e non da fuori. Perché la scelta che tutto sia arabo?

Ci sono diverse ragioni, la principale è voler evitare le facili accuse che vengono mosse nel mondo arabo, ogni qualvolta si fanno scelte trasgressive, di importare dall'occidente un certo concetto del corpo, anche se per me questa non rappresenta un'accusa. Si viene tacciati di importare valori occidentali nel mondo arabo. Ci tenevo a dimostrare che non è vero, che questi valori non sono solo occidentali, ma anche arabi, fanno parte della nostra lingua, della nostra cultura e della nostra eredità. Quando recensiamo le mostre allestite fuori dal mondo arabo è importante che gli articoli siano scritti da arabi per arabi, che ci siano idee arabe. La rivista contiene testi molto liberi, erotici. Sono stata accusata di pornografia, ma chi si aspetta di sfogliare Jasad come una sorta di versione araba di Playboy resta deluso perché all'interno ci sono articoli seri che possono risultare anche noiosi. È facile fare provocazione, soprattutto se si è della mia parte del mondo, ma ha senso se vi va oltre, se si costruisce qualcosa. Essere contestata per Jasad è un prezzo da mettere in conto, ma sono convinta che ci sia bisogno di parlare di questi argomenti, non sono gli unici, ma io ho scelto la mia battaglia. È un progetto facile da attaccare perché è molto vulnerabile.

Perché è sempre sul corpo delle donne che si combattono le guerre e si consumano vendette? Sono spesso le prime vittime.

Perché veniamo da una lunga storia di maschilismo, di società patriarcali. Quando viaggio in Europa tante donne mi dicono di riconoscersi nelle mie frustrazioni di donna dell'oriente. Questo mi stupisce, si crederebbe che per la donna europea alcune cose appartengano al passato, invece non è così per tutte.

Lei parla di responsabilità delle donne, non solo di colpe degli uomini. In che senso?

La condizione di subalternità femminile c'è a tutte le latitudini, ma biasimare gli uomini per questo sarebbe facile. La colpa è anche delle donne che si rifanno a idee preconfezionate su come si trasmettono educazione e principi ai propri figli maschi, da madri. Anche qui ci sono da ritrovare le colpe delle donne. C'è spesso una complicità pericolosa contro le donne stesse. Io provengo da una famiglia cristiana che mi ha educata in maniera molto severa, da ragazzina non potevo andare al cinema da sola, ma ora da adulta e madre di due figli maschi, provo a far cambiare le cose da dentro. Ci sono molte più donne nemiche delle donne che uomini. Non ho nessun rapporto con le associazioni femministe e non lo voglio avere, perché non voglio essere inserita in una categoria, fare una lotta per i diritti delle donne con un titolo o con un grande nemico: l'uomo. Credo nella complicità fra i due sessi. Migliorare la condizione della donna facendo dell'uomo un nemico è una lotta sterile che non mi convince. Le lotte collettive delle associazioni sono importanti, ma non sono le mie, io ho scelto qualcosa di diverso. Il cambiamento non dobbiamo aspettarlo pensando che a concedercelo debba essere l'uomo, ma dobbiamo ottenerlo ad ogni costo, facendo degli sforzi.

Che orizzonti vede per il suo Paese?

Non sono molto ottimista, ci sono molti problemi a livello politico e questo inevitabilmente influenza il modo di vivere, di pianificare. Quello che si fa è sempre condizionato a qualcosa di più grande di noi, molto rischioso, e che non si può controllare. C'è sempre un elemento che non si può controllare, ovunque, ma quando si tratta di un elemento di destabilizzazione continua può rallentare tutto ciò che si vuole fare e questo può gettare nella disperazione. Presto avremo le elezioni, non so prevedere come andranno, c'è una scissione fortissima. Si parla molto di diversità, è vero che il Libano è un paese fatto di contraddizioni, pluralismo, ma stiamo andando verso una direzione in cui non si rispetta più che l'altro sia diverso e questo è molto pericoloso. Non ha senso vivere in un luogo in cui si parla di convivenza se non si rispetta o non si è rispettati per le proprie diversità. Aspetto con ansia questa scadenza, ma è difficile prevedere come andrà, è un Paese che vive sempre su un vulcano.

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Il Libano di fronte a se stesso - Intervista a Geroges Corm, intellettuale libanese, che racconta il Paese dei Cedri tra passato e futuro

24/06/2009

Intervista a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all'Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo

scritto per noi da
Francesca Borri

La Linea Verde già nessuno sostiene di ricordare dove e cosa sia. Ma perché in realtà, Beirut gli è come implosa dentro. Guerriglieri indistinguibili dai civili pattugliano le strade delle periferie sciite, poi un centro in via di ricostruzione, lo chiamano DownTown, e guardie private in kalashnikov a presidiare gli Armani e Ferragamo, e il culto pagano di Rafiq Hariri opposto a quello di Hassan Nasrallah. Dieci anni indiscussi da primo ministro, il suo mausoleo è la sintesi della Beirut che ha voluto, una tenda accanto alla moschea, per prato una moquette e margherite di plastica.
Il Libano è una di quelle volte che l'atlante inganna. Dicono Medio Oriente, in realtà è nei Balcani. E poi però, Georges Corm e, improvviso, il Mediterraneo che torna, leggero e potente, "luogo di mezzo che si interroga sulla relazione, in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell'altro", il Mediterraneo che è metafora, e non geografia.

Chi era Rafiq Hariri?
Una figura tipica degli anni Novanta, ma non solo in Libano: il magnate della finanza internazionale, le origini della cui ricchezza non sono mai state chiarite. Negli anni della guerra civile (1975 - 1990) era l'uomo d'affari di fiducia del futuro re dell'Arabia Saudita: i libanesi, allo stremo, avevano bisogno di denaro, e lui era lì, provvidenziale, con una liquidità inesauribile. Ha comprato di tutto. Poi si è dedicato anche ad attività benefiche, in particolare borse di studio: ed è diventato il salvatore. Sunnita, sostenuto incondizionatamente dall'Arabia Saudita, dunque dagli Stati Uniti, Hariri aveva accesso immediato presso i potenti del mondo, Vaticano incluso, ed era anche molto vicino alla Francia perché amico di Chirac. Era perfetto per affascinare la borghesia cristiana, privata dalla guerra del suo antico potere: un musulmano moderato filo-occidentale, con idee liberali in economia: si pensava che avrebbe arginato l'influenza sciita, Hezbollah in particolare, e che avrebbe spazzato via ogni forma di nazionalismo arabo. Era l'uomo del capitalismo. Ma la sua nuova repubblica non ha affatto ristabilito l'intesa nazionale: dominata da un ristretto gruppo di azionisti, è stata invece la repubblica degli scandali finanziari e della corruzione ostentata. Speculazioni monetarie, aumenti artificiali dei costi di ricostruzione, opere pubbliche sovradimensionate. Ma anche la raccolta dei rifiuti, il contrabbando dai confini siriani, un cartello nell'importazione di petrolio e gasolio, l'arbitrio nel pagamento delle indennità ai rifugiati, le concessioni pubbliche attribuite senza asta, il monopolio dei media e soprattutto tassi altissimi sui buoni del Tesoro, emessi in numero superiore alle necessità dello stato per consentire il più facile degli arricchimenti. Eppure nessuno ha opposto una reale resistenza. Perché la guerra non ha lasciato che un vuoto di idee e valori.

Ma che Libano immaginava?
Una riedizione del vecchio sogno della borghesia cristiana del commercio, una specie di Montecarlo del Medio Oriente. Come Paese tradizionalmente addetto ai servizi, il Libano non poteva certo rimanere ai margini della riorganizzazione economica regionale prospettata da americani e israeliani nel solco del processo di Oslo: nel nome adesso del più ferreo neoliberismo, quello secondo cui lo stato e l'azione collettiva non sono che forme di distorsione e spreco. Arricchirsi, è stata questa l'ideologia della ricostruzione, e questa è ancora, senza la minima nozione di bene pubblico. Le ferite della guerra sembrano curabili solo attraverso il successo individuale negli affari, a immagine e somiglianza di Rafiq Hariri, l'uomo partito dal nulla. E l'icona di tutto questo è la ricostruzione di Beirut, mediante l'appello ai capitali privati della penisola arabica e una società che si è appropriata illegalmente del patrimonio di migliaia di cittadini: in un genocidio architettonico e culturale che ha travolto l'aspetto da casbah della Beirut storica, della Beirut mediterranea. L'obiettivo è la centralità del centro di Beirut, senza alcuna inclusione delle periferie e senza alcuna riorganizzazione complessiva del paese. Ma in passato Beirut aveva potuto proporsi nel ruolo di piazza commerciale e bancaria solo a causa del ritardo di cui soffriva la regione sul piano delle infrastrutture. Oggi la morfologia del Medio Oriente è profondamente diversa. Un progetto simile non è dunque che una rimozione e negazione della realtà: e soprattutto, della realtà di una popolazione devastata dalla guerra, con necessità e priorità radicalmente altre. Mentre il Libano continua a essere moneta di scambio geopolitico, la nuova élite non è animata che da un desiderio di denaro. Dallas-sur-Mer: potrebbe essere questo il nome attuale di una Beirut in cui si intrecciano tradizionali rivalità tra famiglie e violenti scontri finanziari. Quanto ai libanesi, sono solo comparse. Tassisti, camerieri, guardie private.

Sull'assassinio di Hariri giudica oggi un tribunale speciale delle Nazioni Unite, perché non c'è pace si dice, senza giustizia. Secondo Cesare Beccaria, però, era importante non tanto la severità, quanto l'infallibilità della pena: dopo una guerra da 150mila vittime, giustizia per un uomo solo.
Intanto questo tribunale arriva da una duplice violazione della costituzione libanese. Perché non è stato chiesto da tutte le forze politiche all'unanimità, e i ministri sciiti in opposizione hanno lasciato il governo - che invece deve includere tutte le confessioni. Invece non solo il governo residuo non ha rassegnato le dimissioni, ma ha accettato l'istituzione del tribunale, che tecnicamente avveniva mediante un trattato internazionale, senza la necessaria ratifica del presidente della Repubblica. Alla fine, dopo mesi di paralisi, il tribunale è entrato in vigore con un intervento del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che consente misure coercitive a fronte di una minaccia alla pace - prima ancora che la commissione di inchiesta avesse presentato le proprie conclusioni. Ma la vera peculiarità di questo tribunale è la sua competenza: un omicidio, invece che crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Da libanese, io non posso che volere un tribunale per tutti i crimini compiuti. 150mila persone sono state uccise dalle varie milizie, 18mila sono scomparse nel nulla. Per non parlare di Israele e delle sue aggressioni. E anche se sono crimini che non entrano in prescrizione, nessuno ha mai proposto un tribunale internazionale. Hariri non è stato né il primo né l'ultimo a rimanere ucciso in un attentato, né in Libano né altrove. Certo i tempi sono cambiati, la giustizia penale internazionale conosce oggi una straordinaria espansione. Ma esattamente negli anni in cui si istituiva un tribunale per la Jugoslavia, e poi per il Ruanda, qui si approvava una amnistia. Non è solo questione di tempi che cambiano. Questi tribunali sono interventi politici, non semplicemente giudiziari. All'epoca, in tanti abbiamo chiesto una commissione di verità e riconciliazione sul modello del Sudafrica. Ma è stato inutile.

Ieri cristiani contro musulmani. Oggi filo-occidentali contro filo-siriani. Le semplificazioni in bianco e nero sono spesso 'fratture immaginarie', per riprendere il titolo del suo libro su Oriente e Occidente. Un tribunale, che con le sue sentenze separa in innocenti e colpevoli, non contribuisce a queste logiche?
Ormai i media internazionali classificano i libanesi in due campi a tenuta stagna: gli anti-siriani, gli alleati democratici dell'Occidente guidati essenzialmente dalla famiglia Hariri, e i pro-siriani, e dunque pro-iraniani, che minano il futuro. Il vostro Libano è un ritratto in bianco e nero: ogni sfumatura è sospettata di sostegno al terrorismo. Le commissioni di inchiesta che hanno preceduto il tribunale, e che oggi hanno già tutti dimenticato, sono state estremamente significative. La prima, presieduta dal tedesco Mehlis, dopo un solo mese di indagini ha consegnato un rapporto a senso unico, sulla base di testimonianze che poi si sono rivelate infondate. Si accusava la Siria, insieme agli apparati di sicurezza libanesi, di avere creato l'atmosfera in cui è maturato l'assassinio. Era un rapporto del tutto impermeabile alla complessità di questo Paese: divideva il Libano in democratici e terroristi, come se i ferrei anti-siriani di adesso non abbiano avuto in passato relazioni molto strette con la Siria - Hariri incluso. E così si è arrivati all'arresto di quattro alti ufficiali dei servizi di sicurezza, senza mezzo contraddittorio con gli accusatori. E il Paese è tornato nell'anarchia. Poi è arrivato il belga Brammertz, e le indagini hanno riacquisito credibilità, ma comunque il tribunale è stato istituito quando ancora non si aveva un'accusa ufficiale contro qualcuno. La sua prima decisione, la scarcerazione degli ufficiali, è stata ineccepibile. Ma niente garantisce che l'intossicazione politica non si ripeta. Chi e come elaborerà i fascicoli alla base del lavoro dei giudici?

Secondo Danilo Zolo, l'obiettivo di questi tribunali non può che ridursi all'esemplarità della pena, in un regresso al medioevo, alle cerimonie collettive di stigmatizzazione del nemico. Carla del Ponte ha intitolato le sue memorie La Caccia. Eppure Hezbollah ha accettato democraticamente una sconfitta elettorale inattesa.
Hezbollah è considerato un gruppo terroristico che attacca Israele senza alcuna giustificazione, e che Israele ha dunque il diritto di sradicare. Le vittime civili, qui, non sarebbero dovute che alla codardia di Hezbollah, che terrebbe i libanesi in ostaggio in forma di scudi umani. E che sarebbe parte di quella nebulosa jihadista animata da Bin Laden, un fascismo islamico incompatibile con i più elementari diritti della persona. Ma Hezbollah, più semplicemente, è un movimento di resistenza. Ha condotto una guerriglia implacabile contro ventidue anni di occupazione, fino a quella vittoria che nessun esercito arabo aveva saputo ottenere. Ed è molto efficiente anche nell'azione di governo, come Hamas. Hezbollah non è affatto telecomandata da Damasco o Teheran: da anni, ormai, è completamente inserita nella politica nazionale, forte di consenso e fiducia. La realtà è che siamo davanti a nient'altro che la forma contemporanea dei movimenti di liberazione degli anni della decolonizzazione. Movimenti ampiamente sostenuti dai sovietici e da Nasser, senza che questo scalfisse minimamente l'autenticità della sollevazione popolare, né la sua legittimità. E quanto all'intonazione religiosa, non è che speculare in fondo a quella di Israele, che si definisce uno stato ebraico - con il sostegno di un Occidente che si propone adesso come erede dei valori giudeo-cristiani: un abisso, rispetto al vecchio richiamo alle radici greco-romane. E cioè radici fondamentalmente pagane, panteiste, politeiste: l'istituzionalizzazione del pluralismo, la contaminazione tra divinità e culture, non la loro reciproca esclusione. Non l'autismo di una visione monolitica della salvezza, al di fuori della quale non rimangono che tenebre, e dunque l'intolleranza e la violenza. Non il mondo delle terre promesse, dei profeti degli eletti, ma il ragionamento logico, il dialogo socratico.

La via per la stabilità del Libano passa per l'attuazione della Risoluzione 1559 sul disarmo di Hezbollah?
Anche qui - nessuno insiste mai sull'attuazione delle risoluzioni che riguardano Israele, a partire dal ritiro dai territori occupati e il ritorno dei rifugiati palestinesi. L'Iraq ha subito un embargo criminale, che ha falciato decine di migliaia di bambini, per non avere rispettato le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ed è stato brutalmente punito per la sua invasione del Kuwait. Perché non anche Israele per le sue ripetute aggressioni? Come per il nucleare - si discute solo dell'atomica iraniana. Eppure continuate a non percepire l'impatto destabilizzante di questa vostra costante strumentalizzazione del diritto internazionale. L'attuale crisi libanese ha due dimensioni. La prima è interna, e contrariamente a quanto si crede taglia trasversalmente le comunità: perché abbiamo gli stessi governanti dal 1990, cristallizzati intorno a Rafiq Hariri e oggi suo figlio Saad: e cittadini di tutte le confessioni e classi sociali rivendicano invece un Libano non più gestito come un'impresa privata. La seconda dimensione è il conflitto con Israele: e coinvolge quanti non intendono affidare la difesa e resistenza all'esercito libanese o all'Unifil. I caschi blu sono qui in missione temporanea da trent'anni: nelle università si insegna che il loro obiettivo è congelare un conflitto: Unifil non ha ottenuto neppure questo, Israele ha continuato ad attaccare. La via per la stabilità è la soluzione della questione palestinese. Anche se la verità è che il Libano non potrà mai emanciparsi con questo sistema comunitario che invade ogni spazio pubblico, e le varie confessioni facile preda di potenze straniere. Siamo da sempre uno stato a sovranità condizionata. Solo per un breve momento, con l'indipendenza, abbiamo saputo essere un crocevia di scambio e dialogo, né Oriente né Occidente. Il sistema comunitario ha genetica totalitaria, richiede identità e fedeltà assolute. La stabilità passa attraverso la sua eliminazione. Ma nella forma attuale di occidentalizzazione del mondo, la globalizzazione non fa che rafforzarlo, generando chiusura e difesa.


Peacereporter - http://it.peacereporter.net/articolo/16347/Il+Libano+di+fronte+a+se+stesso

Libano, un futuro incerto - Intervista allo storico Georges Corm, che da decenni racconta il puzzle mediorientale

12/08/2010
Libano, un futuro incerto - Intervista allo storico Georges Corm, che da decenni racconta il puzzle mediorientale

Scontro a fuoco al confine con Israele, Hezbollah nel mirino del Tribunale Internazionale per l'omicidio Hariri, un governo bloccato, le pressioni dell'Iran. Il Libano è una polveriera.
Intervista sulla situazione attuale nel Paese dei Cedri a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all'Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo.

Che cosa ne pensa di quello che ha detto Nasrallah a proposito dell'assassinio di Hariri? C'è qualcosa di nuovo?
No, non per chi segue da vicino e quotidianamente quello che sta succedendo nel nostro Paese. Ma quel discorso è parte di un contrattacco che risponde a quanto dice una certa stampa negativa, e cioè che il procuratore del Tribunale Internazionale per il Libano stia indicando Hezbollah come il prossimo colpevole dell'assassinio di Hariri. Ormai è chiaro che non ci sono prove né contro la Siria né contro i quattro generali libanesi incaricati della sicurezza del Paese che sono stati scarcerati. Le accuse si erano basate sulla falsa testimonianza di testimoni che sono risultati corrotti, ed ecco perché oggi molti in Libano temono che l'accusa contro Hezbollah sia basata su false testimonianze o su una documentazione truccata, come in precedenza.
Quello che ha detto Nasrallah il 9 agosto scorso non è una novità, ma aver riunito tutte le informazioni per la prima volta è un modo per sottolineare un certo risentimento nei confronti della Commissione Internazionale d'inchiesta e del Tribunale perchè l'ipotesi di un coinvolgimento d'Israele nell'omicidio Hariri non è mai stata presa in considerazione.
Dopo tutto la questione basilare di chi può aver commesso il crimine non è mai stata sollevata.

Cosa ne pensa del Tribunale Internazionale? Ha un senso effettivo o alla fine non c'è un impegno reale per scoprire la verità?
A meno che uno non sia molto ingenuo, non è possibile non pensare che sia stato creato esclusivamente per ragioni politiche. L'assassinio di personaggi politici non è mai stato di competenza dei tribunali internazionali il cui scopo è quello di punire i crimini di guerra, genocidi o le stragi di massa su basi religiose o etniche. Politici molto più importanti di Hariri, come John Kennedy, Olof Palme, Aldo Moro sono stati assassinati e nessuno ha pensato di istituire una commissione d'inchiesta internazionale e poi un tribunale speciale per trovare e punire i colpevoli. Di recente, dopo l'assassinio di Hariri, la Signora Bhutto, ex primo ministro pakistano, è stata uccisa e nessuno si è commosso abbastanza da suggerire la creazione di un tribunale speciale. Quindi è chiaro che un tribunale speciale per il Libano con il compito di riuscire laddove la commissione d'inchiesta aveva fallito, è stata una manovra esclusivamente politica, per avere uno strumento istituzionale e legale che potesse azzittire quei libanesi pronti a protestare oppure per accusare i partiti politici libanesi ostili agli interessi occidentali.

Se il Tribunale dovesse accusare esponenti importanti di Hezbollah, può Saad Hariri continuare ad avere una relazione normale con loro?
Questo creerebbe una certa confusione e molta tensione in Libano che forse è proprio lo scopo che vorrebbe avere un'accusa del genere. Ma nessuno sta ponendo la domanda fondamentale: perché Hezbollah avrebbe voluto uccidere Hariri, in un momento in cui i rapporti tra i due sono eccellenti sin dal 1996 e anche dopo la risoluzione 1559 dell'Onu che richiedeva alla Siria di spostare il suo esercito fuori dal Libano e al Governo libanese il disarmo di tutti i gruppi armati presenti in Libano.

Qual è oggi il ruolo della Siria in Libano? E qual è il ruolo dell'Iran?
Sembra che abbiano lo stesso ruolo che avevano prima: evitare che il Libano diventi un vicino ostile o un vicino il cui territorio è sfruttato da altri per destabilizzare il regime siriano o per attaccare la Siria attraverso la valle della Bekaa che rende molto facile l'accesso alla capitale Damasco. Ecco perché il supporto a Hezbollah e alle sue truppe in Libano serve per prevenire un eventuale attacco israeliano contro la Siria.
Per quanto riguarda l'Iran, il suo ruolo non è cambiato dalla rivoluzione del 1979 cioè continua a dare un supporto armato di resistenza contro un'eventuale occupazione israeliana dei territori libanesi e palestinesi. Questo è un elemento cruciale dell'ideologia del regime che ha ereditato tutti i discorsi precedenti anti-imperialistici dei partiti locali marxisti e dell'Unione sovietica, e ha islamizzato il suo vocabolario perché sembrasse più familiare agli abitanti della regione. L'Iran rifornisce Hezbollah con le sue armi e ha esteso il suo aiuto per la ricostruzione dopo la guerra d'Israele contro Hezbollah e il Libano nel 2006, senza nessun costo per lo stato libanese.
Ma se parliamo dell'influenza politica iraniana in Libano, non dimentichiamo che fa da contrappeso all'influenza molto maggiore saudita e occidentale, quindi potrebbe essere considerata un elemento di equilibrio. Un disegno politico saggio si preoccupa che il Libano, situato in una posizione strategica, non cada sotto l'influenza esclusiva di uno dei maggiori poteri internazionali o regionali.

Qual è, secondo lei, il vero piano di Assad? Ha contatti con gli Stati Uniti e con l'Arabia saudita, ma anche dimostra una forte relazione con Teheran.
Come aveva fatto anche Assad padre, il vero piano del regime siriano sotto l'attuale presidenza di Bashir Assad, è creare un sistema di equilibri nella regione in modo tale che i regimi arabi a favore dell'Occidente e gli Stati Uniti e Israele non possano dominare la regione. Questa politica ha, con successo, fatto diventare la Siria un'inevitabile forza della regione che non può essere ignorata dagli altri paesi. L'alleanza con l'Iran è parte di questa politica tradizionale, che si è perfezionata con una nuova alleanza con la Turchia, sempre più coinvolta nelle questioni mediorientali. E' proprio questa politica siriana che George W. Bush e Condoleezza Rice hanno cercato di sradicare per realizzare il loro sogno inconsistente di un nuovo Medio Oriente, cioè attraverso il passaggio iracheno e libanese. Hanno fallito nel loro scopo, ma la loro politica ha procurato alla regione molte sofferenze e una destabilizzazione maggiore.

Come vede il futuro? E' possibile trovare un nuovo equilibrio senza una guerra?
Il futuro rimarrà desolante fintanto che le ambizioni e la feroce politica israeliana contro i diritti legittimi dei palestinesi e dei libanesi non saranno tenuti sotto controllo dai poteri occidentali che danno il loro cieco supporto ad Israele. Oltretutto il modo in cui l'Iran è stato criticato e denunciato, assomiglia troppo all'atteggiamento che l'Occidente ha avuto nei confronti dell'Iraq sotto Saddam Hussein. Spero che non vengano ripetuti gli stessi errori, questa volta nei confronti dell'Iran.
La paranoia occidentale è responsabile di molta parte dell'instabilità e della violenza che affligge questa parte della regione. Recentemente questa paranoia è stata espressa egregiamente da José Maria Aznar, l'ex primo ministro conservatore spagnolo, in un suo articolo sul Times londinese del 17 giugno ha scritto che se la supremazia occidentale e d'Israele continua ad essere contestata, allora l'esistenza dell'Occidente sarà in pericolo.
Tra ragione e passione geo-politica dove andrà il Medio Oriente? Non so come rispondere, ma spero che la ragione prevarrà e che l'Occidente smetta di usare due pesi e due misure nell'applicare le leggi internazionali o nell'ignorare le leggi internazionali e umanitarie, a seconda dei loro interessi geopolitici e il loro amore appassionato o il loro odio per questo o quel governo.

ha collaborato Laura Passetti

Christian Elia

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