martedì 16 novembre 2010

domenica 26 settembre 2010

Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.

Il linguista Noam Chomsky ha elaborato la lista delle “10 Strategie della Manipolazione” attraverso i mass media.

1 - La strategia della distrazione. L’elemento principale del controllo sociale è la strategia della distrazione che consiste nel distogliere l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche utilizzando la tecnica del diluvio o dell’inondazione di distrazioni continue e di informazioni insignificanti.
La strategia della distrazione è anche indispensabile per evitare l’interesse del pubblico verso le conoscenze essenziali nel campo della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica. “Sviare l’attenzione del pubblico dai veri problemi sociali, tenerla imprigionata da temi senza vera importanza. Tenere il pubblico occupato, occupato, occupato, senza dargli tempo per pensare, sempre di ritorno verso la fattoria come gli altri animali (citato nel testo “Armi silenziose per guerre tranquille”).

2 - Creare il problema e poi offrire la soluzione. Questo metodo è anche chiamato “problema - reazione - soluzione”. Si crea un problema, una “situazione” che produrrà una determinata reazione nel pubblico in modo che sia questa la ragione delle misure che si desiderano far accettare. Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, oppure organizzare attentati sanguinosi per fare in modo che sia il pubblico a pretendere le leggi sulla sicurezza e le politiche a discapito delle libertà. Oppure: creare una crisi economica per far accettare come male necessario la diminuzione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici.

3 - La strategia della gradualità. Per far accettare una misura inaccettabile, basta applicarla gradualmente, col contagocce, per un po’ di anni consecutivi. Questo è il modo in cui condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte negli anni ‘80 e ‘90: uno Stato al minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero stati applicati in una sola volta.

4 - La strategia del differire. Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria” guadagnando in quel momento il consenso della gente per un’applicazione futura. E’ più facile accettare un sacrificio futuro di quello immediato. Per prima cosa, perché lo sforzo non deve essere fatto immediatamente. Secondo, perché la gente, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. In questo modo si dà più tempo alla gente di abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo con rassegnazione quando arriverà il momento.

5 - Rivolgersi alla gente come a dei bambini. La maggior parte della pubblicità diretta al grande pubblico usa discorsi, argomenti, personaggi e una intonazione particolarmente infantile, spesso con voce flebile, come se lo spettatore fosse una creatura di pochi anni o un deficiente. Quanto più si cerca di ingannare lo spettatore, tanto più si tende ad usare un tono infantile. Perché? “Se qualcuno si rivolge ad una persona come se questa avesse 12 anni o meno, allora, a causa della suggestionabilità, questa probabilmente tenderà ad una risposta o ad una reazione priva di senso critico come quella di una persona di 12 anni o meno (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).

6 - Usare l’aspetto emozionale molto più della riflessione. Sfruttare l'emotività è una tecnica classica per provocare un corto circuito dell'analisi razionale e, infine, del senso critico dell'individuo. Inoltre, l'uso del tono emotivo permette di aprire la porta verso l’inconscio per impiantare o iniettare idee, desideri, paure e timori, compulsioni, o per indurre comportamenti….

7 - Mantenere la gente nell’ignoranza e nella mediocrità. Far si che la gente sia incapace di comprendere le tecniche ed i metodi usati per il suo controllo e la sua schiavitù. “La qualità dell’educazione data alle classi sociali inferiori deve essere la più povera e mediocre possibile, in modo che la distanza creata dall’ignoranza tra le classi inferiori e le classi superiori sia e rimanga impossibile da colmare da parte delle inferiori" (vedi “Armi silenziose per guerre tranquille”).

8 - Stimolare il pubblico ad essere favorevole alla mediocrità. Spingere il pubblico a ritenere che sia di moda essere stupidi, volgari e ignoranti...

9 - Rafforzare il senso di colpa. Far credere all’individuo di essere esclusivamente lui il responsabile della proprie disgrazie a causa di insufficiente intelligenza, capacità o sforzo. In tal modo, anziché ribellarsi contro il sistema economico, l’individuo si auto svaluta e si sente in colpa, cosa che crea a sua volta uno stato di depressione di cui uno degli effetti è l’inibizione ad agire. E senza azione non c’è rivoluzione!

10 - Conoscere la gente meglio di quanto essa si conosca. Negli ultimi 50 anni, i rapidi progressi della scienza hanno creato un crescente divario tra le conoscenze della gente e quelle di cui dispongono e che utilizzano le élites dominanti. Grazie alla biologia, alla neurobiologia e alla psicologia applicata, il “sistema” ha potuto fruire di una conoscenza avanzata dell’essere umano, sia fisicamente che psichicamente. Il sistema è riuscito a conoscere l’individuo comune molto meglio di quanto egli conosca sé stesso. Ciò comporta che, nella maggior parte dei casi, il sistema esercita un più ampio controllo ed un maggior potere sulla gente, ben maggiore di quello che la gente esercita su sé stessa.

Noam Chomsky

Fonte: www.visionesalternativas.com.mx
Link: http://www.visionesalternativas.com.mx/index.php?option=com_content&task=view&id=48460&Itemid=1


Settembre 2010

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di ANONIMO

venerdì 3 settembre 2010

Caso De Magistris - indagini "Why not" e "Poseidone"



Le inchieste “Why Not” e “Poseidone” furono sottratte illegalmente a Luigi De Magistris, nel 2007, quando era ancora un pm della procura di Catanzaro: è questa la tesi della procura di Salerno che, dopo aver chiuso le indagini, ha chiesto il rinvio a giudizio di tre magistrati calabresi, del parlamentare del Pdl Giancarlo Pittelli, dell’ex sottosegretario alle Attività produttive Pino Galati (Udc) e dell’uomo forte di Comunione e liberazione in Calabria, Antonio Saladino. Le prime risposte giudiziarie sul “caso De Magistris” arriveranno il 3 novembre, quando il gip Vincenzo Pellegrino deciderà sulle richieste dei tre pm (Rocco Alfano, Maria Chiara Minerva e Antonio Cantarella) che hanno “ereditato” l’inchiesta dai pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, poi puniti, con il trasferimento, dal Csm.

Chiesta l’archiviazione invece – secondo il Mattino, che per primo ha pubblicato, ieri, la notizia – per altri quattro magistrati – Enzo Iannelli, Alfredo Garbati, Domenico de Lorenzo e Salvatore Curcio – indagati per favoreggiamento e omissione in atti d’ufficio: s’erano rifiutati di trasmettere gli atti di Poseidone e Why Not ai pm salernitani (Nuzzi e Verasani) che stavano indagando sulla sottrazione dei fascicoli a De Magistris. Un rifiuto che sfociò, prima, nel sequestro degli atti, operato dai pm salernitani. E portò poi, proprio a causa del sequestro, alla punizione di Nuzzi, Verasani e del loro capo Luigi Apicella. Oltre che sulla richiesta di archiviazione, però, il gip dovrà deciderà sul rinvio a giudizio degli altri magistrati: l’ex procuratore capo Mariano Lombardi (fu lui ad avocare Poseidone a De Magistris), il procuratore generale reggente Dolcino Favi (avocò l’inchiesta Why Not) e il procuratore aggiunto Salvatore Murone. Le indagini della procura di Salerno ipotizzano, tra vari reati, anche la corruzione in atti giudiziari.

A trarre vantaggio dalla revoca di Poseidone, secondo l’accusa, furono Pittelli e Galati che, negli atti della chiusura d’indagine, appaiono come “istigatori” delle “condotte illecite” di Lombardi e Murone. “L’inevitabile stagnazione delle attività istruttorie in corso”, aveva scritto l’accusa nella chiusura dell’inchiesta, portò a “favorire le persone implicate nelle indagini, in particolare Pittelli e Galati i quali, in un più ampio contesto corruttivo (…) s’erano adoperati per far ricevere sia a Lombardi, sia a suo figlio Pierpaolo Greco, denaro o altre utilità”.

Illegale anche l’avocazione di Why Not: de Magistris, aveva iscritto nel registro degli indagati l’ex ministro Clemente Mastella (poi archiviato dalla procura di Catanzaro). Favi avocò l’inchiesta ipotizzando, per de Magistris, un “conflitto d’interessi”, poiché Mastella aveva avviato un’indagine disciplinare sul pm. “Conflitto d’interessi” che, secondo la procura salernitana, non s’è mai verificato, tanto da sostenere che “veniva attestata, in un atto pubblico, una situazione contraria al vero”. Per questo filone sono indagati Favi e Saladino che, all’epoca, era il principale accusato (poi condannato) nell’inchiesta Why Not.

“La procura di Salerno – ha commentato De Magistris, oggi europarlamentare dell’Idv – conferma che Why Not e Poseidone mi furono sottratte illegalmente, in seguito ad un accordo corruttivo, tra i vertici degli uffici di Procura e alcuni indagati”. “Nonostante il Csm fosse informato da tempo – prosegue – sulle gravi commistioni e le illegalità che interessavano i vertici degli uffici giudiziari di Catanzaro, non ha mai ritenuto di dovere intervenire. Oggi Murone è il titolare dell’inchiesta sugli attentati al procuratore generale di Reggio Calabria. Quello stesso Csm ha invece dimostrato una solerzia straordinaria quando, al termine di processi disciplinari farsa, ha proceduto all’esecuzione professionale mia e dei colleghi di Salerno”.

Pittelli replica: “De Magistris dovrebbe sapere, ma sarebbe pretendere troppo dalla sua cultura giuridica, che la richiesta di rinvio a giudizio rappresenta soltanto un’ipotesi di accusa tutta da verificare. La parte più interessante di tutta la storia deve essere ancora scritta. E la verità, su gruppi e manipoli, non tarderà a ristabilire gli esatti contorni della più vergognosa impostura mai verificata in ambito giudiziario-politico”.

Nell’attesa che la “vergognosa impostura” evocata da Pittelli venga dimostrata, o quanto meno accennata, bisogna registrare questa storia annovera la punizione, da parte del Csm, di almeno quattro pm. Ai quali va aggiunta Clementina Forleo che, (anche) per aver difeso De Magistris durante Annozero, fu prima incolpata e poi trasferita (per incompatibilità ambientale) dalla Procura di Milano. Oltre alle richieste di rinvio a giudizio (e di archiviazione), quindi, in questa vicenda pesa anche il ruolo del Csm dell’epoca, soprattutto se consideriamo che in questi giorni, altri tre pm, confermano (nelle sue parti essenziali) l’impianto accusatorio di Nuzzi e Verasani e, con esso, il “complotto” per sottrarre, in maniera illegale, le indagini all’ex pm napoletano.

da il Fatto Quotidiano del 3 settembre 2010

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/09/03/chiesto-giudizio-per-le-togheche-fermarono-de-magistris/56040/

giovedì 19 agosto 2010

La storia siamo noi - Hezbollah, il partito di Dio

Gli arabi sono usciti dalla storia - Intervista a Iskandar Habash

17/02/2009

Intervista a Iskandar Habash, giornalista e scrittore, sul ruolo dell'intellettuale nel mondo arabo

Iskandar Habash è scrittore, professore di filosofia e giornalista per le pagine del quotidiano libanese as-Safir. Ha scritto diversi saggi e raccolte di poesia. Di origine palestinese, è nato a Beirut, dove vive tuttora.

iskandar habashNella crisi attuale che attraversa il Medio Oriente e il mondo arabo in generale dove è l'intellettuale? E quale è il suo ruolo in queste società?

L'intellettuale arabo non può avere un ruolo nelle società arabe oggi perché è messo a margine sia dai regimi sia dall'affermazione sempre più forte dei partiti religiosi. Negli anni 1950-1960 si che l'intellettuale aveva un ruolo, poi ha fallito per varie ragioni. Una è che le società arabe non hanno saputo adattarsi alla modernità. Un'altra causa, da non dimenticare, è che la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 ha influito e indebolito molto i pochi intellettuali progressisti che ancora esistevano nel mondo arabo. I partiti religiosi hanno cominciato così ad affermarsi a spese dei partiti laici. In Libano è successo con l'affermazione di Hezbollah nei primi anni Ottanta. Dopo la decolonizzazione dei paesi arabi, gli intellettuali hanno avuto un grande ruolo, ma poi tutti i regimi arabi si sono trasformati in regimi militari o dittatoriali. Questi regimi non vogliono un sistema laico e progressista, preferiscono un sistema religioso anche estremista ma che possono controllare. Quale è il ruolo dell'intellettuale oggi? L'intellettuale scrive, ma non viene ascoltato. Le sue idee non circolano nella società.

Quanta influenza ha oggi la voce dell'intellettuale nel mondo arabo e in Libano in particolare?

Non hanno nessuna influenza. Sono i partiti religiosi che riescono a far scendere nelle strade milioni di persone, non un intellettuale. Poi appena un intellettuale comincia ad avere una certa influenza allora viene ucciso o messo in prigione. Quanti giornalisti sono stati uccisi in Libano tra il 2005-2006?

Quale è il rapporto tra l'intellettuale libanese e il sistema confessionale?

Abbiamo due tipi di intellettuali: c'è chi rifiuta il confessionalismo e resta dunque escluso dalla società, e c'è invece chi accetta e entra a far parte di questo sistema.

i funerali di samir kassir, giornalista libanese ucciso in un attentatoLa condizione araba attuale potrebbe essere il risultato di una reazione sbagliata all'irruzione della modernità in questo mondo?

Certo. Bisognerebbe come prima cosa 'modernizzare' questa società. Oggi nel mondo arabo ci sono moltissime persone analfabete. La società è molto indietro bisogna ammetterlo. E tutto questo indietreggiamento, questo takhalof, viene mascherato con cose futili e superficiali. L'unica idea condivisa da tutti è quella religiosa.

Crede che nel mondo arabo si legga abbastanza?

La società araba non legge e se vuoi qui c'è un paradosso. L'Islam dice: Iqra, leggi. I libri più venduti sono quelli di cucina, oroscopi e bellezza. Un romanzo vende 2mila copie in dieci anni. Immagina! Poi internet, al posto di essere un modo per veicolare la cultura, ha invece allontanato la gente dalla lettura. E poi la gente, se si interessa alla letteratura, si interessa a quella sacra.

Intellettuali come forze civili opposte ai governanti?

Non può costituire una forza civile. Alcuni fondatori di partiti importanti nel mondo arabo sono stati degli intellettuali come Michel Aflaq per il Ba'ath, trasformatosi poi in una dittatura, o Antoun Sa'adeh per il Partito nazional-socialista siriano, che ha fallito.

Cosa ne è della nahda, la rinascita letteraria araba?

Il problema è che la nahda non ha saputo oltrepassare l'idea di Dio. Dio non si può discutere. L'Islam ha bisogno di riforme. Vedi ad esempio il fatto che l'arabo è la lingua del Corano un testo rivelato da Dio non si può discutere sulla riforma della lingua. La lingua letteraria si è evoluta pochissimo Il dialetto, quello si, che si è evoluto. Ci vogliono circa dieci anni per creare un neologismo nella lingua araba.

E il futuro della società araba come lo vede?

Male, sono molto pessimista. Gli arabi sono usciti dalla storia. L'Europa produce e noi consumiamo. Questa società non può continuare cosi. Una rivoluzione sociale? La vedo difficile. La gente che si ribella lo fa arruolandosi nelle milizie dei vari partiti religiosi. Bisogna risolvere il problema della Palestina, questo è il grande problema del mondo arabo. Guarda, tutti i leader nei loro discorsi usano la causa palestinese per legittimarsi tra la gente, se il problema palestinese fosse risolto forse i vari regimi potrebbero cominciare a perdere la loro legittimità. Ma purtroppo attualmente non vedo nessuna soluzione!

Erminia Calabrese

Peacerepoerter - http://it.peacereporter.net/articolo/14282/Gli+arabi+sono+usciti+dalla+storia

Rai News - Intervista a JOUMANA HADDAD caporedattrice di JASAD

Scrivere con le unghie - Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad

05/06/2

Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad, caporedattrice della rivista Jasad

scritto per noi da
Linda Chiaramonte

Un'intelligenza acuta e una profonda capacità di analisi unite a grande sensibilità e sensualità contraddistinguono la giornalista e poetessa libanese Joumana Haddad. Donna che non ama i cliché, come dimostra la sua produzione, e che al contrario vuole ribaltarli. L'indipendenza e la libertà di pensiero sono le sue cifre stilistiche, anche a costo di risultare scomoda sostenendo posizioni impopolari.

La Haddad è fra le più importanti poetesse arabe contemporanee, dal dicembre scorso anche capo redattrice della rivista trimestrale Jasad (corpo in arabo), responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese an-Nahar, vincitrice del premio del giornalismo arabo nel 2006, autrice della raccolta di poesie Adrenalina, la prima pubblicata in Italia nelle scorse settimane dalle Edizioni del Leone. La rivista Jasad, specializzata nella letteratura e le arti del corpo in tutte le sue rappresentazioni, fra cui anche sessualità ed erotismo, argomenti tabù nel suo paese, la rendono un prodotto editoriale quasi rivoluzionario. Abbiamo incontrato Joumana Haddad a Bologna, ospite nei giorni scorsi della facoltà di Lingue, e le abbiamo rivolto alcune domande.

Dopo quanti anni arrivano in Italia le sue poesie?

Ho iniziato a scrivere a 12 anni, ho pubblicato il primo libro nel 1995, la prima traduzione in lingua straniera è del 2003. In tutti questi anni sono stata tradotta in inglese, francese, tedesco, spagnolo, mi pesava non esserlo ancora in italiano, lingua che amo molto.

Come definisce la sua poesia?

Scrivo con le mie unghie. Non è facile definire la mia scrittura, è un modo di scavare dentro di me, cioè dentro al mondo. Sono convinta che il mondo non sia fuori, ma dentro di noi. Scavare dentro di me mi aiuta a scoprirmi e a scoprire il mondo. Ognuno di noi è una folla, non una sola persona, e queste persone diverse a volte litigano fra loro, io le ascolto, e ascoltare queste voci e poter scrivere quello che dicono per me è la poesia.

Perché una rivista con al centro il tema del corpo, cosa l'ha spinta a farlo?

Il progetto, ideato 2 anni fa, è una sorta di figlio culturale. La rivista, di duecento pagine, distribuita in tutte le edicole del Libano, vende in zone in cui non ci si aspettava, come nella periferia sciita di Beirut. Fuori dal Libano arriva in abbonamento e molti lettori sono dell'Arabia Saudita, dove la rivista è censurata, sembrerebbe una contraddizione, in realtà non lo è. È logico che proprio in quei luoghi ci sia più curiosità. A volte la censura contribuisce alla distribuzione. La rivista non si occupa solo di sessualità e del corpo 'erotico', questa è solo una delle rappresentazioni, anche se è stata definita la prima rivista che parla di sesso nel mondo arabo. Di Jasad sono anche editrice, lo stampatore preferisce restare anonimo per evitare fastidi. Purtroppo non c'è pubblicità, ho finanziato il progetto da sola. Per me era importante che la rivista uscisse in formato cartaceo, per lanciare una sfida di concretezza, che fosse in arabo per il peso che ha la lingua, e che non avesse pseudonimi per un'assunzione di responsabilità nella scrittura. Collaborano freelance di tutto il mondo arabo: Siria, Egitto, Giordania, Marocco, Arabia Saudita, ci sono ancora poche donne. A spingermi a realizzarla è stato un bisogno. Ho sempre scritto sul tema del corpo, così quando ho deciso di avviare questo progetto editoriale, la scelta è stata naturale. Il fatto che risponda ad un bisogno è dimostrato dal successo di vendite, anche perché nel mondo arabo si è giunti ormai ad un punto in cui parlare di temi relativi al corpo è diventato un tabù. Non era così in passato, ci sono libri del X, XI secolo di un erotismo e di una libertà meravigliosi. Mi è sembrata un'ingiustizia per la lingua araba privarla di questa parte essenziale del suo vocabolario, del suo potenziale capace di esprimere certi concetti, ho voluto contribuire a far cambiare un po' le cose.

Crede di essere coraggiosa per averlo fatto?

No. Piuttosto sono una donna molto ostinata che continua a fare quello che vuole fare. Forse anche questo richiede coraggio, ma sono ostinazione e passione a spingermi.

Ha ricevuto minacce per i temi trattati dalla rivista, vero?

Ci sono abituata, già per le mie poesie sono oggetto di attenzione, ma non m'interessa. Con la rivista è più evidente visto che l'influenza di un giornale è più forte della poesia, anche se vorrei fosse il contrario. È normale che accada, ma finora non sento di correre pericoli. Non ho cambiato nulla nella mia vita e non voglio farlo. Ricevo sia lettere di sostegno che di insulti.

La rivista, che esce nelle edicole del Libano e solo in lingua araba, tratta però temi universali. Esiste una declinazione libanese del corpo?

Non è destinata solo al Libano, ma a tutto il mondo arabo. Non credo alla definizione del corpo libanese o arabo. Il corpo è il corpo, è un linguaggio universale, è proprio questa la sua bellezza. È una cosa che ci riguarda tutti. Quando si fa un incontro d'amore con una persona di cui non si parla la lingua, i corpi parlano e si capiscono, non c'è bisogno di parole e di altri punti comuni. Già questa è una lingua universale. La ragione per cui ho scelto l'arabo è per lanciare una sfida a questa società e a questa cultura che negano ad una lingua bellissima il diritto di esprimere certe cose. Non credo che il corpo libanese abbia delle particolarità necessariamente diverse, abbiamo i nostri problemi, ma ce ne sono alcuni che condividiamo con tutto il mondo, ad esempio la violenza fisica e psichica. La rivista non è fatta per il corpo degli arabi e non parla del corpo degli arabi, ma parla del corpo dagli arabi agli arabi. Ci sono diversi cliché sulla donna araba molto diffusi in occidente fra cui il velo, l'essere musulmana e sottomessa. Il pericolo che si corre per il Libano è anche quello di cadere in un anti cliché. È vero che nel mio paese, molto diverso dall'Arabia Saudita, ci sono tante contraddizioni e che ci sono donne emancipate, ma non lo sono per la legge. La realtà della donna libanese è difficile, piena di frustrazioni, oppressione, spesso chi vive la sua libertà lo fa in maniera superficiale, senza andare in fondo nelle battaglie sociali. Ricorrendo ad esempio ad un uso eccessivo della chirurgia estetica quasi come fosse uno strumento per conquistare emancipazione. Perciò non esiste una donna araba, non so se io lo sono, alcuni elementi tipici non si applicano a me. Ci sono molte idee formate che si vorrebbero confermare parlando di donna araba, ma ci sono ben 22 paesi arabi diversi, fatti di donne altrettanto diverse fra loro. Nel mio paese donne in minigonna camminano fianco a fianco a donne velate, le une vorrebbero imporre la loro visione alle altre e viceversa. L'importante è rispettare le differenze e il diritto ad essere come si vuole.

Quali sono gli elementi che accomunano tutte le donne, a tutte le latitudini oltre le barriere geografiche?

È questo che m'interessa, le cose che condividiamo non solo come donne ma come esseri umani, e sono tante. Che si sia di Beirut, Bologna o della Colombia, ci sono elementi universali: l'amore, la sofferenza, la perdita, la paura, tutto quello che fa un essere umano. A volte forse sento più punti comuni con un uomo nato 50 anni fa in un luogo che non ha niente a che vedere con il mondo arabo che con la mia vicina di casa che ha vissuto le mie stesse esperienze ed ha la mia stessa età. Il fatto di essere donne ci da una certa caratteristica, ma non è l'unica cosa che ci forma, ma sono il modo in cui viviamo le esperienze, guardiamo la vita, sogniamo. Cose queste che ci fanno trovare punti in comune con gente che si penserebbe molto lontana dal proprio modo di essere. Le cose superficiali, il luogo in cui si è nati, ciò che è scritto sulla carta d'identità, il colore degli occhi, che forse si condivide con molti della propria città, non fa che si sia simili. Nella poesia Donna parlo di una gabbia costruita da altri e questo è un tema universale. Ognuno di noi, uomo, donna, africano, colombiano, ha una gabbia intorno. Ognuno può riconoscersi in questi temi, può ritrovare se stesso. Mi ha emozionata il commento di un uomo che si è ritrovato in questa poesia in cui parlo di me. Significa che ho potuto realizzare quello a cui aspiro attraverso la mia scrittura: da donna scrivere per tutti e di tutto. Non solo trasmettere il mio essere donna, ma essendolo trasmettere il mio essere un essere umano che vive, pensa, sogna, soffre, pianifica, che si sente frustrata o in una gabbia e che cerca di fuggire. La gabbia può essere politica, sociale, psichica, fisica, anche che ci si è costruiti da soli. Cosa in cui noi esseri umani abbiamo molto talento.

Jasad è una rivista araba, scritta in arabo e fatta da idee arabe. Fatta da dentro e non da fuori. Perché la scelta che tutto sia arabo?

Ci sono diverse ragioni, la principale è voler evitare le facili accuse che vengono mosse nel mondo arabo, ogni qualvolta si fanno scelte trasgressive, di importare dall'occidente un certo concetto del corpo, anche se per me questa non rappresenta un'accusa. Si viene tacciati di importare valori occidentali nel mondo arabo. Ci tenevo a dimostrare che non è vero, che questi valori non sono solo occidentali, ma anche arabi, fanno parte della nostra lingua, della nostra cultura e della nostra eredità. Quando recensiamo le mostre allestite fuori dal mondo arabo è importante che gli articoli siano scritti da arabi per arabi, che ci siano idee arabe. La rivista contiene testi molto liberi, erotici. Sono stata accusata di pornografia, ma chi si aspetta di sfogliare Jasad come una sorta di versione araba di Playboy resta deluso perché all'interno ci sono articoli seri che possono risultare anche noiosi. È facile fare provocazione, soprattutto se si è della mia parte del mondo, ma ha senso se vi va oltre, se si costruisce qualcosa. Essere contestata per Jasad è un prezzo da mettere in conto, ma sono convinta che ci sia bisogno di parlare di questi argomenti, non sono gli unici, ma io ho scelto la mia battaglia. È un progetto facile da attaccare perché è molto vulnerabile.

Perché è sempre sul corpo delle donne che si combattono le guerre e si consumano vendette? Sono spesso le prime vittime.

Perché veniamo da una lunga storia di maschilismo, di società patriarcali. Quando viaggio in Europa tante donne mi dicono di riconoscersi nelle mie frustrazioni di donna dell'oriente. Questo mi stupisce, si crederebbe che per la donna europea alcune cose appartengano al passato, invece non è così per tutte.

Lei parla di responsabilità delle donne, non solo di colpe degli uomini. In che senso?

La condizione di subalternità femminile c'è a tutte le latitudini, ma biasimare gli uomini per questo sarebbe facile. La colpa è anche delle donne che si rifanno a idee preconfezionate su come si trasmettono educazione e principi ai propri figli maschi, da madri. Anche qui ci sono da ritrovare le colpe delle donne. C'è spesso una complicità pericolosa contro le donne stesse. Io provengo da una famiglia cristiana che mi ha educata in maniera molto severa, da ragazzina non potevo andare al cinema da sola, ma ora da adulta e madre di due figli maschi, provo a far cambiare le cose da dentro. Ci sono molte più donne nemiche delle donne che uomini. Non ho nessun rapporto con le associazioni femministe e non lo voglio avere, perché non voglio essere inserita in una categoria, fare una lotta per i diritti delle donne con un titolo o con un grande nemico: l'uomo. Credo nella complicità fra i due sessi. Migliorare la condizione della donna facendo dell'uomo un nemico è una lotta sterile che non mi convince. Le lotte collettive delle associazioni sono importanti, ma non sono le mie, io ho scelto qualcosa di diverso. Il cambiamento non dobbiamo aspettarlo pensando che a concedercelo debba essere l'uomo, ma dobbiamo ottenerlo ad ogni costo, facendo degli sforzi.

Che orizzonti vede per il suo Paese?

Non sono molto ottimista, ci sono molti problemi a livello politico e questo inevitabilmente influenza il modo di vivere, di pianificare. Quello che si fa è sempre condizionato a qualcosa di più grande di noi, molto rischioso, e che non si può controllare. C'è sempre un elemento che non si può controllare, ovunque, ma quando si tratta di un elemento di destabilizzazione continua può rallentare tutto ciò che si vuole fare e questo può gettare nella disperazione. Presto avremo le elezioni, non so prevedere come andranno, c'è una scissione fortissima. Si parla molto di diversità, è vero che il Libano è un paese fatto di contraddizioni, pluralismo, ma stiamo andando verso una direzione in cui non si rispetta più che l'altro sia diverso e questo è molto pericoloso. Non ha senso vivere in un luogo in cui si parla di convivenza se non si rispetta o non si è rispettati per le proprie diversità. Aspetto con ansia questa scadenza, ma è difficile prevedere come andrà, è un Paese che vive sempre su un vulcano.

Peacereporter - http://it.peacereporter.net/articolo/16110/Scrivere+con+le+unghie

Il Libano di fronte a se stesso - Intervista a Geroges Corm, intellettuale libanese, che racconta il Paese dei Cedri tra passato e futuro

24/06/2009

Intervista a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all'Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo

scritto per noi da
Francesca Borri

La Linea Verde già nessuno sostiene di ricordare dove e cosa sia. Ma perché in realtà, Beirut gli è come implosa dentro. Guerriglieri indistinguibili dai civili pattugliano le strade delle periferie sciite, poi un centro in via di ricostruzione, lo chiamano DownTown, e guardie private in kalashnikov a presidiare gli Armani e Ferragamo, e il culto pagano di Rafiq Hariri opposto a quello di Hassan Nasrallah. Dieci anni indiscussi da primo ministro, il suo mausoleo è la sintesi della Beirut che ha voluto, una tenda accanto alla moschea, per prato una moquette e margherite di plastica.
Il Libano è una di quelle volte che l'atlante inganna. Dicono Medio Oriente, in realtà è nei Balcani. E poi però, Georges Corm e, improvviso, il Mediterraneo che torna, leggero e potente, "luogo di mezzo che si interroga sulla relazione, in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell'altro", il Mediterraneo che è metafora, e non geografia.

Chi era Rafiq Hariri?
Una figura tipica degli anni Novanta, ma non solo in Libano: il magnate della finanza internazionale, le origini della cui ricchezza non sono mai state chiarite. Negli anni della guerra civile (1975 - 1990) era l'uomo d'affari di fiducia del futuro re dell'Arabia Saudita: i libanesi, allo stremo, avevano bisogno di denaro, e lui era lì, provvidenziale, con una liquidità inesauribile. Ha comprato di tutto. Poi si è dedicato anche ad attività benefiche, in particolare borse di studio: ed è diventato il salvatore. Sunnita, sostenuto incondizionatamente dall'Arabia Saudita, dunque dagli Stati Uniti, Hariri aveva accesso immediato presso i potenti del mondo, Vaticano incluso, ed era anche molto vicino alla Francia perché amico di Chirac. Era perfetto per affascinare la borghesia cristiana, privata dalla guerra del suo antico potere: un musulmano moderato filo-occidentale, con idee liberali in economia: si pensava che avrebbe arginato l'influenza sciita, Hezbollah in particolare, e che avrebbe spazzato via ogni forma di nazionalismo arabo. Era l'uomo del capitalismo. Ma la sua nuova repubblica non ha affatto ristabilito l'intesa nazionale: dominata da un ristretto gruppo di azionisti, è stata invece la repubblica degli scandali finanziari e della corruzione ostentata. Speculazioni monetarie, aumenti artificiali dei costi di ricostruzione, opere pubbliche sovradimensionate. Ma anche la raccolta dei rifiuti, il contrabbando dai confini siriani, un cartello nell'importazione di petrolio e gasolio, l'arbitrio nel pagamento delle indennità ai rifugiati, le concessioni pubbliche attribuite senza asta, il monopolio dei media e soprattutto tassi altissimi sui buoni del Tesoro, emessi in numero superiore alle necessità dello stato per consentire il più facile degli arricchimenti. Eppure nessuno ha opposto una reale resistenza. Perché la guerra non ha lasciato che un vuoto di idee e valori.

Ma che Libano immaginava?
Una riedizione del vecchio sogno della borghesia cristiana del commercio, una specie di Montecarlo del Medio Oriente. Come Paese tradizionalmente addetto ai servizi, il Libano non poteva certo rimanere ai margini della riorganizzazione economica regionale prospettata da americani e israeliani nel solco del processo di Oslo: nel nome adesso del più ferreo neoliberismo, quello secondo cui lo stato e l'azione collettiva non sono che forme di distorsione e spreco. Arricchirsi, è stata questa l'ideologia della ricostruzione, e questa è ancora, senza la minima nozione di bene pubblico. Le ferite della guerra sembrano curabili solo attraverso il successo individuale negli affari, a immagine e somiglianza di Rafiq Hariri, l'uomo partito dal nulla. E l'icona di tutto questo è la ricostruzione di Beirut, mediante l'appello ai capitali privati della penisola arabica e una società che si è appropriata illegalmente del patrimonio di migliaia di cittadini: in un genocidio architettonico e culturale che ha travolto l'aspetto da casbah della Beirut storica, della Beirut mediterranea. L'obiettivo è la centralità del centro di Beirut, senza alcuna inclusione delle periferie e senza alcuna riorganizzazione complessiva del paese. Ma in passato Beirut aveva potuto proporsi nel ruolo di piazza commerciale e bancaria solo a causa del ritardo di cui soffriva la regione sul piano delle infrastrutture. Oggi la morfologia del Medio Oriente è profondamente diversa. Un progetto simile non è dunque che una rimozione e negazione della realtà: e soprattutto, della realtà di una popolazione devastata dalla guerra, con necessità e priorità radicalmente altre. Mentre il Libano continua a essere moneta di scambio geopolitico, la nuova élite non è animata che da un desiderio di denaro. Dallas-sur-Mer: potrebbe essere questo il nome attuale di una Beirut in cui si intrecciano tradizionali rivalità tra famiglie e violenti scontri finanziari. Quanto ai libanesi, sono solo comparse. Tassisti, camerieri, guardie private.

Sull'assassinio di Hariri giudica oggi un tribunale speciale delle Nazioni Unite, perché non c'è pace si dice, senza giustizia. Secondo Cesare Beccaria, però, era importante non tanto la severità, quanto l'infallibilità della pena: dopo una guerra da 150mila vittime, giustizia per un uomo solo.
Intanto questo tribunale arriva da una duplice violazione della costituzione libanese. Perché non è stato chiesto da tutte le forze politiche all'unanimità, e i ministri sciiti in opposizione hanno lasciato il governo - che invece deve includere tutte le confessioni. Invece non solo il governo residuo non ha rassegnato le dimissioni, ma ha accettato l'istituzione del tribunale, che tecnicamente avveniva mediante un trattato internazionale, senza la necessaria ratifica del presidente della Repubblica. Alla fine, dopo mesi di paralisi, il tribunale è entrato in vigore con un intervento del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che consente misure coercitive a fronte di una minaccia alla pace - prima ancora che la commissione di inchiesta avesse presentato le proprie conclusioni. Ma la vera peculiarità di questo tribunale è la sua competenza: un omicidio, invece che crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Da libanese, io non posso che volere un tribunale per tutti i crimini compiuti. 150mila persone sono state uccise dalle varie milizie, 18mila sono scomparse nel nulla. Per non parlare di Israele e delle sue aggressioni. E anche se sono crimini che non entrano in prescrizione, nessuno ha mai proposto un tribunale internazionale. Hariri non è stato né il primo né l'ultimo a rimanere ucciso in un attentato, né in Libano né altrove. Certo i tempi sono cambiati, la giustizia penale internazionale conosce oggi una straordinaria espansione. Ma esattamente negli anni in cui si istituiva un tribunale per la Jugoslavia, e poi per il Ruanda, qui si approvava una amnistia. Non è solo questione di tempi che cambiano. Questi tribunali sono interventi politici, non semplicemente giudiziari. All'epoca, in tanti abbiamo chiesto una commissione di verità e riconciliazione sul modello del Sudafrica. Ma è stato inutile.

Ieri cristiani contro musulmani. Oggi filo-occidentali contro filo-siriani. Le semplificazioni in bianco e nero sono spesso 'fratture immaginarie', per riprendere il titolo del suo libro su Oriente e Occidente. Un tribunale, che con le sue sentenze separa in innocenti e colpevoli, non contribuisce a queste logiche?
Ormai i media internazionali classificano i libanesi in due campi a tenuta stagna: gli anti-siriani, gli alleati democratici dell'Occidente guidati essenzialmente dalla famiglia Hariri, e i pro-siriani, e dunque pro-iraniani, che minano il futuro. Il vostro Libano è un ritratto in bianco e nero: ogni sfumatura è sospettata di sostegno al terrorismo. Le commissioni di inchiesta che hanno preceduto il tribunale, e che oggi hanno già tutti dimenticato, sono state estremamente significative. La prima, presieduta dal tedesco Mehlis, dopo un solo mese di indagini ha consegnato un rapporto a senso unico, sulla base di testimonianze che poi si sono rivelate infondate. Si accusava la Siria, insieme agli apparati di sicurezza libanesi, di avere creato l'atmosfera in cui è maturato l'assassinio. Era un rapporto del tutto impermeabile alla complessità di questo Paese: divideva il Libano in democratici e terroristi, come se i ferrei anti-siriani di adesso non abbiano avuto in passato relazioni molto strette con la Siria - Hariri incluso. E così si è arrivati all'arresto di quattro alti ufficiali dei servizi di sicurezza, senza mezzo contraddittorio con gli accusatori. E il Paese è tornato nell'anarchia. Poi è arrivato il belga Brammertz, e le indagini hanno riacquisito credibilità, ma comunque il tribunale è stato istituito quando ancora non si aveva un'accusa ufficiale contro qualcuno. La sua prima decisione, la scarcerazione degli ufficiali, è stata ineccepibile. Ma niente garantisce che l'intossicazione politica non si ripeta. Chi e come elaborerà i fascicoli alla base del lavoro dei giudici?

Secondo Danilo Zolo, l'obiettivo di questi tribunali non può che ridursi all'esemplarità della pena, in un regresso al medioevo, alle cerimonie collettive di stigmatizzazione del nemico. Carla del Ponte ha intitolato le sue memorie La Caccia. Eppure Hezbollah ha accettato democraticamente una sconfitta elettorale inattesa.
Hezbollah è considerato un gruppo terroristico che attacca Israele senza alcuna giustificazione, e che Israele ha dunque il diritto di sradicare. Le vittime civili, qui, non sarebbero dovute che alla codardia di Hezbollah, che terrebbe i libanesi in ostaggio in forma di scudi umani. E che sarebbe parte di quella nebulosa jihadista animata da Bin Laden, un fascismo islamico incompatibile con i più elementari diritti della persona. Ma Hezbollah, più semplicemente, è un movimento di resistenza. Ha condotto una guerriglia implacabile contro ventidue anni di occupazione, fino a quella vittoria che nessun esercito arabo aveva saputo ottenere. Ed è molto efficiente anche nell'azione di governo, come Hamas. Hezbollah non è affatto telecomandata da Damasco o Teheran: da anni, ormai, è completamente inserita nella politica nazionale, forte di consenso e fiducia. La realtà è che siamo davanti a nient'altro che la forma contemporanea dei movimenti di liberazione degli anni della decolonizzazione. Movimenti ampiamente sostenuti dai sovietici e da Nasser, senza che questo scalfisse minimamente l'autenticità della sollevazione popolare, né la sua legittimità. E quanto all'intonazione religiosa, non è che speculare in fondo a quella di Israele, che si definisce uno stato ebraico - con il sostegno di un Occidente che si propone adesso come erede dei valori giudeo-cristiani: un abisso, rispetto al vecchio richiamo alle radici greco-romane. E cioè radici fondamentalmente pagane, panteiste, politeiste: l'istituzionalizzazione del pluralismo, la contaminazione tra divinità e culture, non la loro reciproca esclusione. Non l'autismo di una visione monolitica della salvezza, al di fuori della quale non rimangono che tenebre, e dunque l'intolleranza e la violenza. Non il mondo delle terre promesse, dei profeti degli eletti, ma il ragionamento logico, il dialogo socratico.

La via per la stabilità del Libano passa per l'attuazione della Risoluzione 1559 sul disarmo di Hezbollah?
Anche qui - nessuno insiste mai sull'attuazione delle risoluzioni che riguardano Israele, a partire dal ritiro dai territori occupati e il ritorno dei rifugiati palestinesi. L'Iraq ha subito un embargo criminale, che ha falciato decine di migliaia di bambini, per non avere rispettato le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ed è stato brutalmente punito per la sua invasione del Kuwait. Perché non anche Israele per le sue ripetute aggressioni? Come per il nucleare - si discute solo dell'atomica iraniana. Eppure continuate a non percepire l'impatto destabilizzante di questa vostra costante strumentalizzazione del diritto internazionale. L'attuale crisi libanese ha due dimensioni. La prima è interna, e contrariamente a quanto si crede taglia trasversalmente le comunità: perché abbiamo gli stessi governanti dal 1990, cristallizzati intorno a Rafiq Hariri e oggi suo figlio Saad: e cittadini di tutte le confessioni e classi sociali rivendicano invece un Libano non più gestito come un'impresa privata. La seconda dimensione è il conflitto con Israele: e coinvolge quanti non intendono affidare la difesa e resistenza all'esercito libanese o all'Unifil. I caschi blu sono qui in missione temporanea da trent'anni: nelle università si insegna che il loro obiettivo è congelare un conflitto: Unifil non ha ottenuto neppure questo, Israele ha continuato ad attaccare. La via per la stabilità è la soluzione della questione palestinese. Anche se la verità è che il Libano non potrà mai emanciparsi con questo sistema comunitario che invade ogni spazio pubblico, e le varie confessioni facile preda di potenze straniere. Siamo da sempre uno stato a sovranità condizionata. Solo per un breve momento, con l'indipendenza, abbiamo saputo essere un crocevia di scambio e dialogo, né Oriente né Occidente. Il sistema comunitario ha genetica totalitaria, richiede identità e fedeltà assolute. La stabilità passa attraverso la sua eliminazione. Ma nella forma attuale di occidentalizzazione del mondo, la globalizzazione non fa che rafforzarlo, generando chiusura e difesa.


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Libano, un futuro incerto - Intervista allo storico Georges Corm, che da decenni racconta il puzzle mediorientale

12/08/2010
Libano, un futuro incerto - Intervista allo storico Georges Corm, che da decenni racconta il puzzle mediorientale

Scontro a fuoco al confine con Israele, Hezbollah nel mirino del Tribunale Internazionale per l'omicidio Hariri, un governo bloccato, le pressioni dell'Iran. Il Libano è una polveriera.
Intervista sulla situazione attuale nel Paese dei Cedri a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all'Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo.

Che cosa ne pensa di quello che ha detto Nasrallah a proposito dell'assassinio di Hariri? C'è qualcosa di nuovo?
No, non per chi segue da vicino e quotidianamente quello che sta succedendo nel nostro Paese. Ma quel discorso è parte di un contrattacco che risponde a quanto dice una certa stampa negativa, e cioè che il procuratore del Tribunale Internazionale per il Libano stia indicando Hezbollah come il prossimo colpevole dell'assassinio di Hariri. Ormai è chiaro che non ci sono prove né contro la Siria né contro i quattro generali libanesi incaricati della sicurezza del Paese che sono stati scarcerati. Le accuse si erano basate sulla falsa testimonianza di testimoni che sono risultati corrotti, ed ecco perché oggi molti in Libano temono che l'accusa contro Hezbollah sia basata su false testimonianze o su una documentazione truccata, come in precedenza.
Quello che ha detto Nasrallah il 9 agosto scorso non è una novità, ma aver riunito tutte le informazioni per la prima volta è un modo per sottolineare un certo risentimento nei confronti della Commissione Internazionale d'inchiesta e del Tribunale perchè l'ipotesi di un coinvolgimento d'Israele nell'omicidio Hariri non è mai stata presa in considerazione.
Dopo tutto la questione basilare di chi può aver commesso il crimine non è mai stata sollevata.

Cosa ne pensa del Tribunale Internazionale? Ha un senso effettivo o alla fine non c'è un impegno reale per scoprire la verità?
A meno che uno non sia molto ingenuo, non è possibile non pensare che sia stato creato esclusivamente per ragioni politiche. L'assassinio di personaggi politici non è mai stato di competenza dei tribunali internazionali il cui scopo è quello di punire i crimini di guerra, genocidi o le stragi di massa su basi religiose o etniche. Politici molto più importanti di Hariri, come John Kennedy, Olof Palme, Aldo Moro sono stati assassinati e nessuno ha pensato di istituire una commissione d'inchiesta internazionale e poi un tribunale speciale per trovare e punire i colpevoli. Di recente, dopo l'assassinio di Hariri, la Signora Bhutto, ex primo ministro pakistano, è stata uccisa e nessuno si è commosso abbastanza da suggerire la creazione di un tribunale speciale. Quindi è chiaro che un tribunale speciale per il Libano con il compito di riuscire laddove la commissione d'inchiesta aveva fallito, è stata una manovra esclusivamente politica, per avere uno strumento istituzionale e legale che potesse azzittire quei libanesi pronti a protestare oppure per accusare i partiti politici libanesi ostili agli interessi occidentali.

Se il Tribunale dovesse accusare esponenti importanti di Hezbollah, può Saad Hariri continuare ad avere una relazione normale con loro?
Questo creerebbe una certa confusione e molta tensione in Libano che forse è proprio lo scopo che vorrebbe avere un'accusa del genere. Ma nessuno sta ponendo la domanda fondamentale: perché Hezbollah avrebbe voluto uccidere Hariri, in un momento in cui i rapporti tra i due sono eccellenti sin dal 1996 e anche dopo la risoluzione 1559 dell'Onu che richiedeva alla Siria di spostare il suo esercito fuori dal Libano e al Governo libanese il disarmo di tutti i gruppi armati presenti in Libano.

Qual è oggi il ruolo della Siria in Libano? E qual è il ruolo dell'Iran?
Sembra che abbiano lo stesso ruolo che avevano prima: evitare che il Libano diventi un vicino ostile o un vicino il cui territorio è sfruttato da altri per destabilizzare il regime siriano o per attaccare la Siria attraverso la valle della Bekaa che rende molto facile l'accesso alla capitale Damasco. Ecco perché il supporto a Hezbollah e alle sue truppe in Libano serve per prevenire un eventuale attacco israeliano contro la Siria.
Per quanto riguarda l'Iran, il suo ruolo non è cambiato dalla rivoluzione del 1979 cioè continua a dare un supporto armato di resistenza contro un'eventuale occupazione israeliana dei territori libanesi e palestinesi. Questo è un elemento cruciale dell'ideologia del regime che ha ereditato tutti i discorsi precedenti anti-imperialistici dei partiti locali marxisti e dell'Unione sovietica, e ha islamizzato il suo vocabolario perché sembrasse più familiare agli abitanti della regione. L'Iran rifornisce Hezbollah con le sue armi e ha esteso il suo aiuto per la ricostruzione dopo la guerra d'Israele contro Hezbollah e il Libano nel 2006, senza nessun costo per lo stato libanese.
Ma se parliamo dell'influenza politica iraniana in Libano, non dimentichiamo che fa da contrappeso all'influenza molto maggiore saudita e occidentale, quindi potrebbe essere considerata un elemento di equilibrio. Un disegno politico saggio si preoccupa che il Libano, situato in una posizione strategica, non cada sotto l'influenza esclusiva di uno dei maggiori poteri internazionali o regionali.

Qual è, secondo lei, il vero piano di Assad? Ha contatti con gli Stati Uniti e con l'Arabia saudita, ma anche dimostra una forte relazione con Teheran.
Come aveva fatto anche Assad padre, il vero piano del regime siriano sotto l'attuale presidenza di Bashir Assad, è creare un sistema di equilibri nella regione in modo tale che i regimi arabi a favore dell'Occidente e gli Stati Uniti e Israele non possano dominare la regione. Questa politica ha, con successo, fatto diventare la Siria un'inevitabile forza della regione che non può essere ignorata dagli altri paesi. L'alleanza con l'Iran è parte di questa politica tradizionale, che si è perfezionata con una nuova alleanza con la Turchia, sempre più coinvolta nelle questioni mediorientali. E' proprio questa politica siriana che George W. Bush e Condoleezza Rice hanno cercato di sradicare per realizzare il loro sogno inconsistente di un nuovo Medio Oriente, cioè attraverso il passaggio iracheno e libanese. Hanno fallito nel loro scopo, ma la loro politica ha procurato alla regione molte sofferenze e una destabilizzazione maggiore.

Come vede il futuro? E' possibile trovare un nuovo equilibrio senza una guerra?
Il futuro rimarrà desolante fintanto che le ambizioni e la feroce politica israeliana contro i diritti legittimi dei palestinesi e dei libanesi non saranno tenuti sotto controllo dai poteri occidentali che danno il loro cieco supporto ad Israele. Oltretutto il modo in cui l'Iran è stato criticato e denunciato, assomiglia troppo all'atteggiamento che l'Occidente ha avuto nei confronti dell'Iraq sotto Saddam Hussein. Spero che non vengano ripetuti gli stessi errori, questa volta nei confronti dell'Iran.
La paranoia occidentale è responsabile di molta parte dell'instabilità e della violenza che affligge questa parte della regione. Recentemente questa paranoia è stata espressa egregiamente da José Maria Aznar, l'ex primo ministro conservatore spagnolo, in un suo articolo sul Times londinese del 17 giugno ha scritto che se la supremazia occidentale e d'Israele continua ad essere contestata, allora l'esistenza dell'Occidente sarà in pericolo.
Tra ragione e passione geo-politica dove andrà il Medio Oriente? Non so come rispondere, ma spero che la ragione prevarrà e che l'Occidente smetta di usare due pesi e due misure nell'applicare le leggi internazionali o nell'ignorare le leggi internazionali e umanitarie, a seconda dei loro interessi geopolitici e il loro amore appassionato o il loro odio per questo o quel governo.

ha collaborato Laura Passetti

Christian Elia

Peacereporter - http://it.peacereporter.net/articolo/23574/Libano%2C+un+futuro+incerto

sabato 24 luglio 2010

Il procuratore antimafia di Palermo Antonio Ingroia intervistato da Corradino Mineo sulla condanna Dell'Utri

I parte




II parte

Il Fatto Quotidiano intervista Roberto Scarpinato sulle stragi di mafia, stragi caratterizzate da depistaggi provenienti da apparati statali.

Dottor Roberto Scarpinato, come nuovo procuratore generale a Caltanissetta lei dovrà occuparsi dell’iter della revisione del processo per la strage di via D’Amelio, che a quanto pare ha condannato definitivamente almeno sette persone innocenti, di cui tre si erano autoaccusate falsamente. Ora, sulle stragi del 1992-93, i suoi colleghi di Palermo e Caltanissetta dicono che siamo prossimi a una verità che la classe politica potrebbe non reggere. Qual è la sua opinione?

Proprio a causa del mio nuovo ruolo non posso entrare nel merito di indagini e processi in corso. Mi limito a un sommario inventario che induce a ritenere che i segreti del multiforme sistema criminale che pianificò e realizzò la strategia terroristico-mafiosa del 1992-93 siano a conoscenza, in tutto o in parte, di circa un centinaio di persone. E tutte, dalla prima all’ultima, continuano a custodirli dietro una cortina impenetrabile.

E chi sarebbero tutte queste persone?
Partiamo dai mafiosi doc: Riina, Provenzano, i Graviano, Messina Denaro, Bagarella, Agate, i Madonia di Palermo, Giuseppe Madonia di Caltanissetta, Ganci padre e figlio, Santapaola e tutti gli altri boss della “commissione regionale” di Cosa Nostra che si riunirono a fine 1991 per alcuni giorni in un casale delle campagne di Enna per progettare la strategia stragista. Una trentina di boss che poi riferirono le decisioni in tutto o in parte ai loro uomini di fiducia. Altre decine di persone. Nessuno di loro ha mai detto una parola sul piano eversivo globale. Le notizie che abbiamo ce le hanno fornite uomini d’onore che le avevano apprese in via confidenziale da alcuni partecipanti al vertice, come Leonardo Messina, Maurizio Avola, Filippo Malvagna. Altri a conoscenza del piano sono stati soppressi poco prima che iniziassero a collaborare, come Luigi Ilardo, o sono stati trovati morti nella loro cella, come Antonino Gioè. Agli esecutori materiali delle stragi o di delitti satellite, i vertici mafiosi in genere non rivelavano i retroscena politici del piano stragista, si limitavano a fornire spiegazioni di causali elementari e di copertura. Aggiungiamo i vertici della ndrangheta che, come hanno rivelato vari collaboratori, tennero nello stesso periodo una riunione analoga nel santuario di Polsi.

Chi altri sa?
È da supporre una serie di personaggi che anticiparono gli eventi che poi puntualmente si verificarono. L’a genzia di stampa “Repubblica” vicina a Vittorio Sbardella, ex leader degli andreottiani romani (nulla a che vedere col quotidiano omonimo) scrisse 24 ore prima di Capaci che di lì a poco si sarebbe verificato “un bel botto” nell’ambito di una strategia della tensione finalizzata a far eleggere un outsider come presidente della Repubblica al posto del favoritissimo Andreotti. Il che puntualmente avvenne, così Andreotti fu costretto a farsi da parte e venne eletto Scalfaro. Anni dopo Giovanni Brusca ha riferito che la tempistica di Capaci era stata preordinata per finalità che coincidono esattamente con quelle annunciate nel profetico articolo. Dunque, o l’autore aveva la sfera di cristallo, o conosceva alcuni aspetti della strategia stragista e
aveva deciso di intervenire sul corso degli eventi con una comunicazione cifrata, comprensibile solo da chi era a parte del piano.

L’agenzia Repubblica aveva pure anticipato il progetto globale in cui si inscriveva il delitto Lima.
Esattamente. Il 19 marzo 1992, pochi giorni dopo l’assassinio di Salvo Lima (andreottiano come Sbardella, ndr), l’agenzia annunciò che l’omicidio era l’incipit di una complessa strategia della tensione “all’interno di una logica separatista e autonomista […] volta a consegnare il Sud alla
mafia siciliana per divenire essa stessa Stato al fine di costituirsi come nuovo paradiso del Mediterraneo […] mediante un attacco diretto ai centri nevralgici di mediazione del sistema dei partiti popolari […].Paradossalmente il federalismodel Nord avrebbe tutto l’interesse a lasciare sviluppare un’analoga forma organizzativa al Sud lasciando che si configuri come paradiso fiscale e crocevia di ogni forma di traffici e di impieghi produttivi, privi delle usuali forme di controllo, responsabili della compressione del reddito derivabile dalla diversificazione degli impieghi di capitale disponibile”. Anni dopo Leonardo Messina rivelò alla magistratura e all’Antimafia il progetto politico secessionista di cui si era discusso nel summit di Enna su input di
soggetti esterni che dovevano dare vita a una nuova formazione politica sostenuta da “vari segmenti dell’imprenditor ia, delle istituzioni e della politica”. Come faceva l’autore dell’articolo a sapere ciò che anni dopo avrebbe svelato Messina? È come se circolassero informazioni in un circuito separato e parallelo a quello destinato alla massa. Un circuito soprastante alla base mafiosa, delegata ad eseguire la parte militare del piano, e interno alla mente politica collettiva che quel piano aveva concepito, anche se poi quel piano mutò in corso d’opera per una serie di eventi sopravvenuti, e si puntò così ad una diversa soluzione incruenta. In questo quadro
c’è poi da chiedersi perché, in un’intervista del 1999, il professor Miglio, ex teorico della Lega Nord, dichiarò parlando dei fatti dei primi anni ‘90: “Io sono per il mantenimento anche della mafia e della ‘ndrangheta. Il Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos’è la mafia? Potere personale, spinto fino al delitto. Io non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un’assurdità. C’è anche un clientelismo buono che determina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate”.

Andiamo avanti.
L’ex neofascista Elio Ciolini, già coinvolto nelle indagini sulla strage di Bologna, il 4 marzo 1992 scrisse una lettera dal carcere al giudice Leonardo Grassi per anticipargli che “nel periodo marzo-luglio” si sarebbero verificati fatti per destabilizzare l’ordine pubblico con esplosioni dinamitarde e omicidi politici. Puntualmente il 12 marzo fu ucciso Lima e nel maggio e luglio ci furono le stragi di Capaci e via D’Amelio. Il 18 marzo Ciolini aggiunse che il piano eversivo era di “matrice masso - p o l i t i c o - m a fi o s a ” , come rivelarono poi alcuni collaboratori di giustizia, e preannunciò un’operazione terroristica contro un leader del Psi. Anni dopo accertammo che era stato progettato l’omicidio di Claudio Martelli, fallito per alcuni imprevisti.

Chi manca, alla “lista della spesa”?
Quanti si celavano dietro la sigla della “Falange armata”i quali, pochi giorni dopo le dimissioni di Martelli da ministro perché coinvolto nelle indagini sul conto segreto svizzero “P ro t e z i o n e ” a seguito delle dichiarazioni rese da Silvano Larini (il 9.2.1993) e da Licio Gelli (il 17.2.1993), diffusero il 21 aprile 1993 un comunicato per invitare Martelli a non fare la vittima e ad essere “grato alla sorte che anche per lui si sia potuta perseguire la via politica invece che quella militare”; e poi per lanciare avvertimenti a Spadolini, Mancino e Parisi, annunciando future azioni. Pochi mesi dopo, la manovra dello scandalo dei fondi neri del Sisde indusse Parisi a dimettersi, fece vacillare il ministro Mancino e anche il presidente Scalfaro, il quale denunciò che dietro quella vicenda si muovevano oscuri progetti di destabilizzazione politica.

E poi ?
L’elenco sarebbe molto lungo e coinvolgerebbe tanti soggetti di quali non posso parlare, visti i limiti che derivano dal mio ruolo. Possiamo forse aggiungere alcuni di coloro che hanno concepito il depistaggio delle indagini sulla strage di via D’Amelio: cioè la costruzione a tavolino, tramite falsi pentiti, di una versione minimalista che ha “tarato” le indagini verso il basso, circoscrivendola a una banda di piccoli criminali come Scarantino, e garantendo intorno ad essa un muro impenetrabile di omertà che ha retto fino a un paio di anni fa, cioè alle dichiarazioni autoaccusatorie di Spatuzza. Poi, se i riscontri dovessero confermare le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, ci sono i vari “si - gnor Franco” o “signor Carlo” che affiancarono suo padre Vito facendo da cerniera tra mondo mafioso e mondi superiori durante le stragi. E inoltre quanti garantirono a Provenzano, garante della soluzione politica alternativa a quella cruenta di Riina, di muoversi per anni liberamente per l’Italia e di visitare Vito Ciancimino gli arresti domiciliari. Poi coloro che fecero sparire l’agenda rossa di Borsellino. E tanti altri...

Come gli ufficiali del Ros Mori e De Donno, ora imputati per la mancata cattura di Provenzano dopo la trattativa che portò all’arresto di Riina, con annessa mancata perquisizione del covo e sparizione delle carte segrete del boss. E i superiori militari e politici che autorizzarono quella “trattativa”.
Non posso rispondere. Sono fatti ancora oggetto di indagini in corso.

Su questa convergenza di ambienti e interessi lei, a Palermo, aveva avviato l’indagine “Sistema criminale”, poi in parte archiviata. Che cos’è il sistema criminale?
Quello che abbiamo appena sintetizzato. Un sistema composto da esponenti di mondi diversi, tutti rimasti orfani dopo la caduta del Muro di Berlino delle passate protezioni, all’ombra delle quali avevano potuto coltivare i più svariati interessi economici e criminali, tra questi anche la mafia militare sino ad allora tollerata come anticorpo contro il pericolo comunista. Questi mondi intercomunicanti attraverso uomini cerniera erano accomunati da un interesse convergente: destabilizzare il sistema agonizzante della Prima Repubblica e impedire un ricambio politico radicale ai vertici del Paese con l’avvento delle sinistre al potere (la “gioiosa macchina da guer ra”). Ciò doveva avvenire mediante la creazione di un nuovo soggetto politico che avrebbe dovuto conquistare il potere mediante un’ar ticolata strategia che si snodava contemporaneamente sul piano militare e politico. La nostra ipotesi, almeno sul piano storico, esce sempre più confermata dalle recenti scoperte investigative. Nella stagione delle stragi si muovono molteplici operatori che poi si dividono i compiti. Chi concepisce il piano, chi lo realizza a livello militare, chi organizza la disinformazione e chi i depistaggi. Basterebbe che cominciasse a parlare qualcuno che conosce anche solo la sua parte, per consentirci enormi passi avanti nella ricerca della verità. Ma, finora, non parla nessuno.

Bè, mafiosi come Spatuzza e figli di mafiosi come Massimo Ciancimino parlano. E costringono a ricordare qualche esponente delle istituzioni: gli improvvisi lampi di memoria di alcuni politici, dopo 17-18 anni, sul ruolo di Mori durante la “trattativa” con Ciancimino fanno pensare che tanti a Roma sappiano molto, se non tutto...

Anche qui preferisco non addentrarmi in vicende specifiche, tuttora oggetto di indagini e processi. Prescindendo da casi specifici, vista dall’alto la tragica sequenza degli avvenimenti di quegli anni fa pensare al “gioco grande” di cui parlava Falcone: l’ennesimo gigantesco war game giocato all’inter - no di alcuni settori della nomenclatura del potere nazionale sulla pelle di tanti innocenti. Un war game trasversale combattuto anche a colpi di segnali, messaggi trasversali, avvertimenti in codice, veti incrociati e ricatti sotterranei: non potendo parlare esplicitamente tutti erano costretti a comunicare con linguaggi cifrati.

Perché dice “ennesimo war game”?
Tutta la storia repubblicana è segnata dal “gioco grande” celato dietro progetti di colpi di Stato poi rientrati (dal golpe Borghese al piano Solo) e stragi caratterizzate da depistaggi provenienti
da apparati statali: da Portella della Ginestra alla strage di Bologna alle stragi del 1992-93. Perciò la questione criminale in Italia è inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale e con la questione stessa dello Stato e della democrazia.

Possibile che, in un Paese debole di prostata dove nessuno si tiene niente, i segreti
sulle stragi custoditi da tanta gente tanto eterogenea restino impenetrabili a quasi vent’anni di distanza?
Molte stragi d’Italia nascondono retroscena che coinvolgono decine, se non centinaia di persone. Pensi a Portella della Ginestra: la banda Giuliano, i mafiosi, i servizi segreti, esponenti delle Forze dell’ordine, il ministero dell’Interno. Pensi alle stragi della destra eversiva. Così quelle politico-mafiose del 1992-93. La storia insegna che quando un segreto dura nel tempo sebbene condiviso da decine e decine di persone, è il segno che su quel segreto è impresso il sigillo del potere. Un potere che cavalca la storia riproducendosi nelle sue componenti fondamentali e che eleva intorno al proprio operato un muro invalicabile di omertà, perché è così forte da poter depistare le indagini, alimentare la disinformazione, di-struggere la vita delle persone, riuscendo a raggiungerle e a eliminarle anche nel carcere più protetto. Come Gaspare Pisciotta, testimone scomodo ucciso all’Ucciardone con un caffè alla stricnina, e a un’altra decina di persone al corrente dei segreti retrostanti la strage di Portella. E come Ermanno Buzzi, condannato in primo grado per la strage di Brescia e strangolato in carcere. Resta inquietante lo strano suicidio incarcere nel 1993 di Nino Gioè, appena arrestato e sospettato per Capaci, dopo strani incontri con agenti dei servizi e una strana trattativa avviata con Paolo Bellini, coinvolto in indagini sull’eversione nera negli anni 70, per aprire un canale con Cosa Nostra. Ed è inquietante che Nino Giuffrè, braccio destro di Provenzano, abbia raccontato di essere stato invitato a suicidarsi nel 2005, subito dopo l’inizio della sua collaborazione, ancora segretissima.

Il muro dell’omertà comincia a fessurarsi solo quando il sistema di potere entra in crisi. È per questo che oggi si aprono spiragli importanti di verità?
Presto per dirlo, ma ancora una volta la lezione della storia ce lo insegna. Quando la Prima Repubblica era potente, Buscet-ta, Marino Mannoia e altri collaboratori rifiutarono di raccontare a Falcone i rapporti mafia-politica: iniziarono a svelarli solo nel ‘92, quando quel sistema crollò, o meglio sembrò fosse crollato.

Oggi il governo appena qualcuno torna a parlare, vedi Spatuzza, gli nega il programma di protezione. Che messaggio è?
Quella decisione è stata presa contro il voto di dissenso dei magistrati della Procura nazionale antimafia che fanno parte della Commissione sui collaboratori di giustizia e contro il parere concorde dei magistrati di ben tre Procure della Repubblica antimafia: Caltanissetta, Palermo e Firenze. Intorno al caso Spatuzza e sul fronte delle indagini sulle stragi si è verificata una spaccatura assolutamente inedita tra magistrati e gli altri componenti della Commissione. Proprio perché non si tratta di una scelta di routine e proprio a causa di questa spaccatura,
quella decisione in un mondo come quello mafioso che vive di segnali può essere equivocata e letta in modo distorto: nel senso che lo Stato in questo momento non è compatto nel voler conoscere la verità sulle stragi. Naturalmente non è affatto così, le motivazioni del dissenso sono di tipo giuridico, ma è innegabile che il pericolo esista.

Dunque hanno ragione i pm di Caltanissetta quando dicono in Antimafia che la politica non è pronta a fronteggiare l’onda d’urto delle nuove verità sulle stragi?
A me risulta che le loro dichiarazioni sono state riportate dalla stampa in modo inesatto. In ogni caso, sulle stragi e i loro retroscena abbiamo oggi un’occasione più unica che rara, forse l’ultima, per raccontare una storia collettiva sepolta da quasi vent’anni di oblio organizzato. Per restituire al Paese a sua verità e aiutarlo a divenire finalmente adulto. Se non dovessimo farcela neppure stavolta, non ci resterebbe che fare nostra un’amara considerazione di Martin Luther King: “Alla fine non ricorderemo le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei nostri amici”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano del 24 luglio , in edicola

mercoledì 14 luglio 2010

mercoledì 30 giugno 2010

Sette anni, ne dimostra di più - Marco Travaglio

Dunque, anche per la Corte d’appello di Palermo, Marcello Dell’Utri è un mafioso. Dopo cinque giorni di battaglia in camera di consiglio, i giudici più benevoli che lui abbia mai incontrato hanno stabilito quanto segue: fino al 1992, prima in casa Berlusconi, poi nella Fininvest, poi in Publitalia, ha sicuramente lavorato per Cosa Nostra (la vecchia mafia dei Bontate e Teresi, e la nuova mafia dei Riina e Provenzano) e contemporaneamente per il Cavaliere palazzinaro, finanziere, editore, tycoon televisivo.

Dopo il 1992, cioè negli anni delle stragi politico-mafiose e della successiva nascita di Forza Italia (un’idea sua), mancano le prove che abbia seguitato a farlo per il Cavaliere politico. Questo, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, è quanto si può dire a una prima lettura del suo dispositivo.
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Qualche sito e qualche cronista (tra cui, sorprendentemente, quello di Sky) si sono subito affannati a concludere che “è stato smentito Spatuzza”: ma questo, finchè non saranno note le motivazioni, non lo può dire nessuno. Molto più probabile che i giudici abbiano stabilito, com’è giusto, che le sue parole – né confermate né smentite – da sole non bastano, senza riscontri. Riscontri che avrebbe potuto fornire Massimo Ciancimino, se i giudici Dell’Acqua, Barresi e La Commare avessero avuto la compiacenza di ascoltarlo, prima di decidere apoditticamente, senza nemmeno averlo guardato in faccia, che è “inattendibile” e “contraddittorio”.

Riscontri che già esistevano prima che Spatuzza e Ciancimino parlassero: oltre alle dichiarazioni ultra-riscontrate di Nino Giuffrè e altri collaboratori sul patto Provenzano-Dell’Utri, è proprio sul periodo successivo al 1992 che i magistrati hanno raccolto la maggiore quantità di fatti documentati e inoppugnabili: le intercettazioni del mafioso Carmelo Amato, provenzaniano di ferro, che fa votare Dell’Utri alle europee del 1999; le intercettazioni dei mafiosi Guttadauro e Aragona che organizzano la campagna elettorale per le politiche del 2001 e parlano di un patto fra Dell’Utri e il boss Capizzi nel 1999; le agende di Dell’Utri che registrano due incontri a Milano col boss Mangano nel novembre del 1994, mentre nasceva Forza Italia; la raccomandazione del baby calciatore D’Agostino per un provino al Milan, caldeggiato dai Graviano e propiziato da Dell’Utri; e così via. Vedremo dalle motivazioni come i giudici riusciranno a scavalcare questi macigni.
Ora, per Dell’Utri, il carcere si avvicina. Quello di oggi è l’ultimo giudizio di merito sulla sua vicenda: resta quello di legittimità in Cassazione, ma le speranze di farla franca attraverso una delle tante scappatoie previste dall’ordinamento a maglie larghe della giustizia italiana sono ridotte al lumicino. La prescrizione, per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa doppiamente aggravato dall’elemento delle armi e da quello dei soldi, scatta dopo 22 anni e mezzo dalla data ultima di consumazione del reato: quindi dal 1992. Il calcolo è presto fatto: se la Cassazione deciderà che davvero il reato si interrompe nel 1992, la prescrizione scatterà nel 2014-2015, quanto basta alla Suprema Corte per confermare definitivamente la condanna a 7 anni. Che non potranno essere scontati ai domiciliari secondo la norma prevista dalla ex Cirielli per gli ultrasettantenni (Dell’Utri compirà 70 anni nel 2011), perché non vale per i reati di mafia (altrimenti sarebbero a casa anche Riina e Provenzano).

Se invece la Cassazione cassasse senza rinvio la condanna, Dell’Utri avrebbe risolto i suoi problemi. Ma c’è pure il caso che la Cassazione cassi la sentenza con rinvio, accogliendo il prevedibile ricorso della Procura generale contro l’assoluzione per i fatti post-1992. Nel qual caso si celebrerebbe un nuovo appello, ma per Dell’Utri sarebbe una magra consolazione: rinvierebbe soltanto di un paio d’anni l’amaro calice del carcere, visto che, allungandosi il periodo del suo reato, si allungherebbe anche il termine di prescrizione. Semprechè, naturalmente, non venga depenalizzato il concorso esterno in associazione mafiosa.

Questa sentenza, per quanto discutibile, compromissoria e anche un po’ furbetta, aiuta a comprendere la differenza che passa tra la verità giudiziaria e quella storica, politica, morale. Nessuna persona sana di mente potrebbe credere, alla luce del dispositivo, che Cosa Nostra sia un’accozzaglia di squilibrati che si alleva un concorrente esterno, lo infiltra nell’abitazione e nelle aziende di Berlusconi per tutti gli anni 70 e 80 fino al 1992 e poi, proprio quando diventa più utile, cioè quando s’inventa un partito che riempie il vuoto lasciato da quelli che avevano garantito lunga vita alla mafia fino a quel momento, lo scarica o se ne lascia scaricare senza colpo ferire.

Una banda di pazzi che per un anno e mezzo mettono bombe e seminano terrore in tutt’Italia per sollecitare un nuovo soggetto politico che rimpiazzi quelli decimati da Tangentopoli e dalla crisi finanziaria e politica del 1992, e quando questo soggetto politico salta fuori dal cilindro non di uno a caso, ma del vecchio amico Dell’Utri, interrompono le stragi, votano in massa per Forza Italia, ma rompono i rapporti col vecchio amico Dell’Utri, divenuto senatore e rimasto al fianco del nuovo padrone d’Italia.

I giudici più benevoli mai incontrati da Dell’Utri, dopo cinque anni di appello e cinque giorni di camera di consiglio, non hanno potuto evitare di confermare che, almeno fino al 1992, esistono prove insuperabili (perfino per loro) della mafiosità di Dell’Utri. Cioè dell’uomo che ha affiancato Berlusconi nella sua scalata imprenditoriale, finanziaria, editoriale, televisiva. E che nel 1992-’93 ideò Forza Italia, nel 1995 fu arrestato per frode fiscale e nel 1996 entrò in Parlamento per non uscirne più.
Intervistato qualche mese fa da Beatrice Borromeo per il Fatto quotidiano, Dell’Utri ha candidamente confessato: “A me della politica non frega niente. Io mi sono candidato per non finire in galera”. Ecco, mentre i giudici di Palermo scrivono le motivazioni, ora la palla passa alla politica. Un’opposizione decente, ma anche una destra decente, semprechè esistano, dovrebbero assumere subito due iniziative.

1) Inchiodare Silvio Berlusconi in Parlamento con le domande a cui, dinanzi al Tribunale di Palermo, oppose la facoltà di non rispondere. Perché negli anni 70 si affidò a Dell’Utri (e a Mangano)? Perché, quando scoprì la mafiosità di almeno uno dei due (Mangano), non cacciò anche l’altro che gliel’aveva messo in casa (Dell’Utri), ma lo promosse presidente di Publitalia e poi artefice di Forza Italia? Da dove arrivavano i famosi capitali in cerca d’autore degli anni 70 e 80? Si potrebbe pure aggiungere un interrogativo fresco fresco: il presidente del Consiglio è forse ricattato o ricattabile anche su queste vicende (ieri il legale di Dell’Utri, Nino Mormino, faceva strane allusioni al prodigarsi del suo assistito fino al 1992 per “salvare dalla mafia Berlusconi e le sue aziende”)?

2) Pretendere le immediate dimissioni di Marcello Dell’Utri dal Parlamento. Quello di oggi non è un avviso di garanzia, una richiesta di rinvio a giudizio, un rinvio a giudizio, una sentenza di primo grado: è la seconda e ultima sentenza di merito. Che aspetta la politica a fare le pulizie in casa? Che i carabinieri irrompano a Palazzo Madama per prelevare il senatore e condurlo all’Ucciardone?

http://santagatando.files.wordpress.com/2009/12/mangano.jpg

http://www.ilfattoquotidiano.it/2010/06/29/sette-anni-ne-dimostra-di-piu/33420/

domenica 20 giugno 2010

Lucio Dalla - Cara



cosa ho davanti,
non riesco piu' a parlare
dimmi cosa ti piace,
non riesco a capire,
dove vorresti andare
vuoi andare a dormire
quanti capelli che hai,
non si riesce a contare
sposta la bottiglia
e lasciami guardare
se di tanti capelli,
ci si puo' fidare
conosco un posto nel mio cuore
dove tira sempre il vento
per i tuoi pochi anni
e per i miei che sono cento
non c'e' niente da capire,
basta sedersi ed ascoltare
perche' ho scritto una canzone
per ogni pentimento
e debbo stare attento
a non cadere nel vino
e finir dentro ai tuoi occhi,
se mi vieni piu' vicino...
la notte ha il suo profumo
e puoi cascarci dentro
che non ti vede nessuno
ma per uno come me, poveretto
che voleva prenderti per mano
e cascare dentro un letto...
che pena...che nostalgia
non guardarti negli occhi
e dirti un'altra bugia
a...almeno non ti avessi incontrato
io che qui sto morendo
e tu che mangi il gelato
tu corri dietro il vento
e sembri una farfalla
e con quanto sentimento

ti blocchi e guardi la mia spalla
se hai paura a andar lontano,
puoi volarmi nella mano
ma so' gia' cosa pensi,
tu vorresti partire
come se andare lontano
fosse uguale a morire
e non c'e' niente di strano
ma non posso venire
e la notte cominciava
a gelare la mia pelle
una notte madre che cercava
di contare le sue stelle
io li sotto ero uno sputo
e ho detto ole' sono perduto
tu corri dietro il vento
e sembri una farfalla
e con quanto sentimento
ti blocchi e guardi la mia spalla
se hai paura a andar lontano,
puoi volarmi nella mano
la notte sta' morendo
ed e'cretino cercare di fermare
le lacrime ridendo
ma per uno come me l'ho gia' detto
che voleva prenderti per mano
e volare sopra un tetto
lontano si ferma un treno
ma che bella mattina
il cielo e' sereno
buonanotte, anima mia
adesso spengo la luce
e cosi' sia...

mercoledì 16 giugno 2010

WikiLeaks to release video of deadly US Afghan attack

Whistleblowing website says it is still working to prepare the film of the bombing of the Afghan village of Garani in May 2009
Wikileaks
Wikileaks has said it plans to release a video of a US air strike in Afghanistan which allegedly killed many children. Photograph: public domain

The whistleblowing website WikiLeaks says it plans to release a secret military video of one of the deadliest US air strikes in Afghanistan in which scores of children are believed to have been killed.

WikiLeaks announced the move in an email to supporters. It said it fears it is under attack after the US authorities said they were searching for the site's founder, Julian Assange, following the arrest of a US soldier accused of leaking the Afghanistan video and another of a US attack in Baghdad in which civilians were killed.

WikiLeaks released the Baghdad video in April, prompting considerable criticism of the US military. It says it is still working to prepare the film of the bombing of the Afghan village of Garani in May 2009.

The Afghan government said about 140 civilians were killed in Garani, including 92 children. The US military initially said that up to 95 people died, of which about 65 were insurgents. However, American officials have since wavered on that claim and a subsequent investigation admitted mistakes were made during the attack.

The video could prove to be extremely embarrassing to the US military and risks weakening Afghan support. The US said it was targeting Taliban positions when it used weapons that create casualties over a wide area, including one-tonne bombs and others that burst in the air. But two US military officials told a newspaper last year that no one checked to see whether there were women and children in the buildings.

The US commander, General David Petraeus, said a year ago that the military's video of the attack would be made public as evidence that the US assault on Garani was justified. But it was not released.

In an email to supporters, Assange said WikiLeaks has the Garani video and "a lot of other material that exposes human rights abuses by the US government".

Last week, it was revealed that US authorities are trying to make contact with Assange to press him not to publish information the Pentagon says could endanger national security. Assange cancelled an appearance in Las Vegas last Friday.

In his email, Assange also calls on supporters to protect the website from "attack" by the authorities following the detention of a US soldier, Bradley Manning, who was arrested in Iraq after admitting to a former hacker that he leaked the Garani and Baghdad videos to WikiLeaks.


http://www.guardian.co.uk/media/2010/jun/16/wikileaks-us-military-afghanistan-garani


Kyrgyzstan killings are attempted genocide, say ethnic Uzbeks

Fractured demographics and economic success of minority underpinned volatile country, say those targeted by mobs
An ethnic Uzbek walks amidst debris of a ruined building in the  city of Osh

An ethnic Uzbek boy walks amid debris of a ruined building in Osh, Kyrgyzstan. Photograph: Kazbek Basayev/Reuters

It was early afternoon when the mob surged down an alley of neat rose bushes and halted outside Zarifa's house. The Kyrgyz men broke into her courtyard and sat Zarifa down next to a cherry tree. They asked her a couple of questions. After confirming she was an ethnic Uzbek, they stripped her, raped her and cut off her fingers. After that they killed her and her small son, throwing their bodies into the street. They then moved on to the next house.

"They were like beasts," Zarifa's neighbour, Bakhtir Irgayshon, said today, pointing to the gutted bedframe where she had been assaulted. A few pots and pans remained; the rest of the family home was a charred ruin. Zarifa's husband, Ilham, was missing, Irgayshon said, probably dead. Only his mother, Adina, survived the Kyrgyz-instigated conflagration that engulfed the neighbourhood of Cheremushki last Friday.

The scale of the ethnic killing that took place in Osh – as well as in other towns and villages in southern Kyrgyzstan – was grimly obvious. In the next street were the remains of another victim. He burned to death in his bed. Not much was left, only a jigsaw-like spine and hip. Nearby, Uzbek survivors were retrieving the bodies of seven small children. They had been incinerated, together with their mother, while cowering in a dark cellar.

Witnesses said the attacks by the Kyrgyz population on the Uzbek minority were attempted genocide.

The violence erupted in Osh last Thursday evening, possibly ignited by a row in a casino. But much of it appeared co-ordinated and planned, Uzbeks said. The attacks took the prosperous outlying Uzbek areas of town unawares.

"It started on Friday lunchtime," said Rustam, an Uzbek lawyer. "It came in three distinct waves. The Kyrgyz entered Cheremushki district driving an armoured personnel carrier. This paved the way. Several of them were wearing army uniforms. At first we felt relieved. Someone had come to rescue us, we thought! Then the BKR opened fire and started shooting people randomly.

"Behind them was the second wave. This was a mob of about 300 Kyrgyz youths armed with automatic weapons. Most were very young – between 15 and 20 years old. The third wave was made up of looters and included women and young boys. They stole everything of value, piling it into cars. Then they set our houses on fire."

According to Rustam the official toll from the riots – 178 dead and 1,800 injured – is a woeful underestimate. In reality, around 2,000 Uzbeks were slaughtered, he said, as the pogroms quickly spread from Osh to Jalal-Abad, 25 miles away, and other Uzbek villages in the south. Rustam said: "I carried 27 bodies myself. They were just bones. We are talking here about genocide."

With the violence largely now spent, and only the occasional gunshot disturbing Osh's evening curfew, survivors debated who was to blame. Some suggested Kyrgyzstan's ousted president, Kurmanbek Bakiyev, was behind them – describing the violence as a premeditated attempt by him to take revenge on the new leadership. Bakiyev fled the country in April after bloody protests in the capital, Bishkek. His supporters remain in control in much of the south. They dominate Osh's monoethnic Kyrgyz police and power structures, and also control the local mayor's office.

Few believe the riots could have taken place without the local administration's connivance. But it is clear that other grievances are at play. Ethnic Uzbeks make up 15% of Kyrgyzstan's 5.6 million population, and dominate the towns of Osh and Jalal-Abad. These settlements near the Fergana valley ended up in Kyrgyzstan by accident – when Lenin dumped them there in 1924.

"We're hardworking people. We were never nomadic like the Kyrgyz. We never lived in yurts. For the past 2,000 years we've built stone houses," Rustam said. He acknowledged that the town's Uzbeks were usually better off than their Kyrgyz neighbours. "Since the Silk Road, we've been involved in commerce and trade. We are successful. The Kyrgyz are jealous and resent this."

In the centre of Osh, Uzbek enterprises were in ruins. Shops marked with "KG" for Kyrgyz had been spared. Oktam Ismailova managed to save her home from the flames by sloshing water on her roof. A brick thrown through the window hit her father on the head. He survived. "We can't believe what happened. We are in shock," she said.

When the trouble started, thousands of Uzbeks fled to the Uzbekistan border, just three miles from Osh. Not everyone made it: one witness described how two Uzbek youths drove into a Kyrgyz mob in the centre of town. "They pulled the two Uzbek boys out of the car, and killed them in less than five minutes using sticks and knives. Then they dumped them in the Ak-Bura river," said Maya Tashbolotova, who watched, peering over the fence of her guesthouse.

So far, tens of thousands of refugees have crossed into Uzbekistan. According to Unicef, 90% of them are women, children and the elderly. Today, Uzbek guards sealed the border, a 5ft barbed wire fence. Nearby, Uzbek refugee children were washing in a stream while an old lady beaten in the face was being treated. The mood was one of anger, disbelief and betrayal. Many of the girls arriving at the border had been raped, witnesses said.

"Why did I train to be a surgeon? Was it for this?" said a 35-year-old Uzbek doctor, who declined to be named, crying quietly in the corner of his temporary surgery. The doctor said that many victims had been shot in the face and head. A nurse showed footage on a mobile phone of an Uzbek man who had been doused in kerosene and set alight. His head and arms were blackened stumps. He had no eyes. But he lived for several days, dying two days ago in agony.

"We have been discriminated against for 20 years," the doctor said, referring to the ethnic riots that took place near Osh in 1990, just after the breakup of the Soviet Union. Recently, he said, Kyrgyz chauvinism had grown, fuelled by the weakness of the government, and by a fear that the Uzbek minority was becoming too strong and was prone to secessionist-minded leaders.

There was not much sign of humanitarian relief today, with Kyrgyz drivers too scared to enter Uzbek neighbourhoods. Uzbeks had demarcated their territory by felling maple trees and building makeshift barricades with burned-out cars. Nearby, Kyrgyz soldiers had set up checkpoints in a post-facto show of strength. Some Kyrgyz locals blamed the riots on Uzbek youths, who they said ransacked a local casino.

Back in Cheremushki, Rustam said the events of the last week heralded a return to barbarism in an age seemingly governed by international rules and institutions. Asked who was to blame, he said: "It was the state against us. It was the whole system. It was everything."


http://www.guardian.co.uk/world/2010/jun/16/kyrgyzstan-killings-attempted-genocide-uzbeks