martedì 8 luglio 2014

Siria, tra l’incudine e il martello

Democrazia e totalitarismo
In “Democrazia e totalitarismo” Raymond Aron si domanda quale sia “il principio di un regime a partito monopolistico” o autoritario. Secondo l'intellettuale francese una democrazia si fonda su principi quali il “rispetto della legalità” e lo “spirito del compromesso”. Al contrario un regime autoritario non può fondarsi su tali principi perché il regime stesso “sarebbe minacciato di morte” se venisse “corrotto” dallo “spirito democratico del compromesso”. Secondo Aron, le fondamenta di un regime autoritario sono costituite da due elementi principali: la fede e la paura. La fede in un ideale di cui il regime si fa portatore; la paura suscitata nella popolazione. Un ulteriore elemento sarebbe, secondo Maurice Barrés, citato da Aron, la consapevolezza che il popolo ha della propria impotenza rispetto alla possibilità di cambiamento.

Siria – Elezioni presidenziali
Le recenti elezioni presidenziali siriane sono state un primo passo verso la transizione democratica del paese? Com'era ampiamente prevedibile, Bashar al-Asad è stato rieletto, incassando un successo plebiscitario (l'88,7%). Oltre alla ovvia reticenza a mollare il potere da parte del regime, bisogna interrogarsi sulla situazione mediorientale nel suo complesso. Chi potrebbe auspicare l'avvio di un reale processo di democratizzazione in Siria? Il regime? Le potenze regionali - Arabia Saudita, Iran e Israele - o quelle internazionali?

Democratizzazione di Asad
Il clan al-Asad governa la Siria con il pugno di ferro dal 1970. All'inizio del 2011, il regime si è investito nell'opera di repressione violenta e sistematica di un movimento di opposizione a lungo rimasto in larghissima parte pacifico, rifiutando categoricamente di scendere a compromessi sulla questione principale, il ruolo di Bashar al-Asad nel futuro della Siria.

Al contrario, ha perseguito in maniera unilaterale un programma di riforme tardive e di facciata, quali l'abrogazione della legge d'emergenza (subito sostituita da un'altra analoga, anti-terrorismo), la riforma sulla libertà dei media (di fatto sempre sotto il controllo del regime) e la modifica della Costituzione che, dopo oltre 40 anni di monopolio baathista, ha introdotto nella carta fondamentale il pluralismo politico. Quest'ultima riforma prevede inoltre la possibilità per più candidati di competere per la presidenza (le elezioni presidenziali sono sempre state un referendum di reinvestitura del presidente in carica) e stabilisce i criteri di candidabilità degli stessi - ad es.: aver risieduto in Siria per i 10 anni precedenti la candidatura, il che esclude tutti gli oppositori in esilio all'estero - che devono essere verificati dalla Suprema corte costituzionale. Delle 23 domande di candidatura alla presidenza, la Suprema corte ne ha approvate due, quelle di Hassan bin Abdullah al-Nouri (54 anni, uomo d'affari di Damasco) e di Maher Abdul-Hafiz Hajjar (43 anni, deputato indipendente di Aleppo), entrambi pressoché sconosciuti all'opinione pubblica siriana.

Sguardo delle potenze internazionali su Damasco
Perché le potenze regionali e internazionali dovrebbero auspicare per la Siria una transizione verso la democrazia?

Nella guerra civile siriana si riflette, tra gli altri, anche il conflitto tra Arabia Saudita e Iran che questi stanno combattendo all'interno del paese attraverso gruppi affiliati (ad es.: Hezbollah ed i vari gruppi islamisti sostenuti dai sauditi e da altre monarchie del Golfo). Riyadh e Teheran, nemici per eccellenza, trovano però un terreno d'intesa quando si tratta di evitare che si sviluppino nella regione pericolosi esempi di democratizzazione. Anche per Israele, che finora aveva trovato nel regime degli al-Asad il suo “miglior nemico”, una Siria avviata verso un processo di reale democratizzazione diventerebbe una scomoda incognita. Ad un altro livello il conflitto vede contrapposti Stati Uniti e Russia. Lo stesso al-Asad ha dichiarato in una recente intervista al quotidiano libanese Al-Akhbar che “Putin, difendendo la Siria, ha voluto non solo riaffermare la forte alleanza tra di noi, ma anche riequilibrare un ordine internazionale che dalla disintegrazione dell'Unione Sovietica fino all'elezione di Putin è stato dominato da un sistema unipolare guidato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nella NATO”, esplicitando così l'intenzione della Russia di mantenere nella regione l'equilibrio internazionale precedente alla rivoluzione.

Come riassume bene Muhammad al-Sadiq su Al-Araby Al-Jadeed, il fatto che al-Asad dopotutto sia ancora al potere in Siria, e che Abdel Fattah al-Sisi sia stato eletto presidente in Egitto, suggerisce che la politica del “nessun vincitore, nessun perdente” stia di fatto prevalendo e che, non solo da parte di Riyadh e Teheran, ci sia l'intenzione di mantenere congelata la regione senza discostarsi dai rassicuranti schemi tradizionali.

Da rivoluzione a guerra civile
Inizialmente la rivoluzione siriana era riuscita ad imporre parole d'ordine nuove e precise: libertà, democrazia, giustizia sociale e dignità, nel rispetto delle diversità religiose ed etniche, e dell'unità del paese. A questi principi si rifacevano i comunicati dei gruppi pacifici della prima ora quali ad esempio i Comitati locali di coordinamento. Viceversa, le parole d'ordine imposte da subito dal regime e successivamente dai gruppi infiltratisi, sono servite a riportare il conflitto sui binari di contrapposizioni classiche: imperialismo-resistenza, sunnismo-sciismo, autoritarismo laico-fondamentalismo religioso, Oriente-Occidente.

Ciò che la rivoluzione siriana ha prodotto di più “rivoluzionario”, cioè la sua pacifica, democratica e laica ispirazione, sembra ormai inevitabilmente schiacciato tra l'incudine ed il martello della logica di forme antagoniste, ma egualmente autoritarie, di imperialismo e di fondamentalismo religioso. Forze che stanno riorientando la Siria verso vecchi e strumentali discorsi egemonici di cui queste stesse forze si nutrono, imponendo alla popolazione la convinzione che nessun cambiamento democratico sia possibile e che ciò da cui stavano scappando sia in realtà il loro miglior rifugio.

Carlos Eddé. Il Libano visto da un "brasiliano" (del 15 gennaio 2013)

Carlos Eddé, leader del partito Blocco Nazionale, è il discendente di una delle più importanti dinastie politiche libanesi, gli Eddé appunto. Suo nonno Emile è stato un importante uomo politico ed ex-presidente del Libano durante il Mandato francese. Suo zio, Raymond, e suo padre, Pierre, sono stati personaggi politici di grande rilievo. Con la morte dello zio, nel 2000, Carlos, cresciuto in Brasile, si è trovato senza volerlo catapultato nell'arena politica del paese dei cedri. Il suo essere in un certo senso un “estraneo”, gli consente di avere uno sguardo più distaccato sul paese. Lo intervistiamo per conoscere il suo parere su tre temi di grande attualità: il Dialogo Nazionale, il dibattito sulla riforma della legge elettorale e gli eventi siriani.  

Secondo lei, qual'è il principale ostacolo che blocca le trattative sul tavolo del Dialogo Nazionale (DN)? Bisogna fare un passo indietro e tornare agli inizi. Il DN era stato utilizzato, poco tempo dopo la “Rivoluzioni dei Cedri” (2005), da Nabih Berri per insabbiare la questione dell'impeachment dell'allora presidente della Repubblica Emile Lahoud. Io avevo fatto parte della commissione che se ne occupava. Nabih Berri ha fatto virare la discussione del Dialogo Nazionale sul tema delle armi di Hezbollah, facendo passare in secondo piano l'impeachement. Nel 2006 Hezbollah ha provocato la guerra contro Israele, distogliendo l'attenzione dal DN. Proprio durante una delle riunioni del DN, Hassan Nasrallah aveva dichiarato che non ci sarebbero state operazioni militari contro gli israeliani durante l'estate. Una settimana dopo siamo stati tutti colti di sorpresa. Quando si è tornati al tavolo del DN, la questione delle armi era diventata quella della “strategia di difesa nazionale”, ancora una volta per rigirare la frittata. Hezbollah (ed i suoi alleati), per studiare delle concessioni sulle armi, avevano chiesto in cambio l'elaborazione di riforme strutturali che portassero la struttura politica del paese verso un “triumvirato” (cristiani, sunniti, sciiti) e superassero l'attuale ripartizione dei poteri (50-50) tra cristiani e musulmani. La coalizione 14 marzo ha rifiutato tale condizione.  

Qual'è allora lo scopo del DN secondo lei? In generale, ogni volta che viene riesumato il DN è perché vogliono (8 marzo) insabbiare o bloccare qualche questione. Perché fare appello al DN quando c'è un Parlamento e cioè un luogo istituzionale deputato al dialogo politico nazionale? E perché dialogare con forze che non rispettano quegli impegni che hanno preso proprio al tavolo del DN? In seguito ci sono stati gli scontri del 7 maggio 2008 ed il “Diktat” di Doha (dopo il quale il BN lascia il 14 marzo).  

Perché ha lasciato la coalizione 14 marzo? Quali sono gli errori della coalizione per quanto riguarda il DN? Il mio rimprovero al 14 marzo, dal punto di vista della negoziazione con l'8 marzo, era quello di vendere ad un compratore che ha la reputazione di non pagare. Il DN fa parte della strategia “win-win” dell'8 marzo. Questi, chiamando al dialogo il 14 marzo, “vincono” in ogni caso. Se il 14 marzo accetta il dialogo vengono messi in un angolo (perché sulla questione delle armi solo Hezbollah ha l'ultima parola) e se non accettano vengono accusati di non volere il dialogo. Inoltre, c'è la questione degli attentati politici i cui sospettati ruotano intorno ad Hezbollah, compreso l'ultimo, quello del 19 ottobre in cui è rimasto ucciso Wissam al-Hassan. Perché cercare il dialogo con chi rifiuta di consegnare al Tribunale Speciale i 4 sospetti dell'attentato a Rafiq Hariri? Con chi non può decidere direttamente delle proprie azioni (perché controllato dall'Iran)? Ed infine, perché cercare il dialogo con una forza politica che è armata? 

Questa sua posizione rispetto ad Hezbollah è emersa anche in un recente articolo, nel quale lei ha criticato l'apertura che il patriarca maronita Bechara al-Rai ha fatto verso il partito sciita. Per quale motivo Hezbollah non sarebbe un interlocutore politico credibile? Se si torna alle dichiarazioni degli esponenti di Hezbollah, se si legge il libro scritto dal numero due del partito, lo sheikh Naim al-Qassem, si scopre che si dice nero su bianco: che Hezbollah è parte integrante della Rivoluzione iraniana; che la leadership è nominata dalla Rivoluzione iraniana; che il partito è subordinato alla Guardia rivoluzionaria (iraniana); ed infine, che tutte le decisioni più importanti sono prese, in ultima istanza, unicamente dalla Guida suprema della Rivoluzione iraniana. Quando si parla ad un partito che ha una leadership, degli ordini, dei finanziamenti, delle armi, una dottrina, ecc. che provengono direttamente dall'Iran...beh non si sta parlando ad un interlocutore libanese, si sta parlando con l'Iran. Hezbollah è uno strumento di politica strategica della Rivoluzione iraniana in Libano. Dunque non esiste dialogo possibile. L'unico tema sul quale avrebbe senso dialogare sono le armi, perché in presenza di armi non esiste un reale dialogo, non esiste una reale competizione elettorale.  

Nel 2009, il suo partito BN ha lasciato la coalizione 14 marzo. In alcune interviste lei ha lasciato intendere che i suoi ex alleati politici hanno “tradito” i principi e gli ideali che avevano animato la “Rivoluzione dei Cedri” nel 2005, in seguito alla quale la coalizione si era formata. Quali sono i problemi che l'hanno allontanata dalla coalizione 14 marzo? La coalizione 14 marzo si trova di fronte a due principali problemi: il primo è un problema strutturale dell'alleanza stessa. Questa è stata costruita contro qualcosa e non per qualcosa o per l'attuazione di un programma comune. Questo significa che la coalizione ritrova la sua unità solo se di fronte ad un pericolo imminente, altrimenti le sue varie componenti (molto diverse politicamente tra loro) vanno ognuna per conto proprio. Questa dinamica si è verificata diverse volte. La prima volta all'indomani della “Rivoluzione dei Cedri”, in occasione delle elezioni del 2005. Le forze politiche del 14 marzo hanno costruito le loro alleanze elettorali frammentandosi e senza costituire un blocco elettorale unitario. Ingenuamente hanno pensato che tendendo la mano ad Hezbollah potevano allontanarlo dalla Siria. Cadono sempre nelle stesse trappole. Non imparano mai dai loro errori. Inoltre, non hanno tenuto conto di una componente importante della coalizione, le forze della società civile (che hanno partecipato attivamente alla “Rivoluzione dei Cedri”), che non fanno parte dei partiti principali e che non ne condividono i programmi. Insomma sono incapaci di fare un piano e perseguirlo. Sanno solo fare una politica in reazione a qualcos'altro o di approfittare di situazioni contingenti com'è il caso adesso con ciò che succede in Siria.  

Per quanto riguarda il dibattito sulla riforma della legge elettorale, le proposte di legge sotto le quali si potrebbero tenere le prossime elezioni sono: quella del 1960 tornata in vigore con gli accordi di Doha nel 2008 (sistema maggioritario di lista ad un turno e 24 circoscrizioni elettorali); il disegno di legge approvato dal governo e discusso in commissione parlamentare (sistema proporzionale e 13 circoscrizioni elettorali); la proposta dei partiti conservatori cristiani, Forze libanesi e Partito Falangista (sistema maggioritario di lista ad un turno e 50 circoscrizioni elettorali); e la cosiddetta proposta “greco-ortodossa”, (sistema proporzionale, una sola circoscrizione per tutto il paese e l'abolizione del principio del collegio elettorale unico, cioè ogni cittadino può votare solo per i seggi destinati alla propria comunità d'appartenenza). Ci può fare un'analisi delle diverse alternative? Per quanto riguarda il Libano, prima di tutto bisogna precisare che qualsiasi sia la legge elettorale questa è falsata dal fatto che noi viviamo in un regime confessionale (come previsto dalla Costituzione libanese, le cariche politiche e dell'amministrazione pubblica, sono distribuite tra le principali comunità religiose, secondo un rapporto di 50-50 tra cristiani e musulmani,). L'accordo di Taif ha attribuito alle comunità cristiane la metà dei poteri pubblici, compresa la metà dei seggi del Parlamento. Dunque la competizione elettorale si gioca attraverso queste variabili. Il sistema maggioritario di lista ad un turno, qualsiasi sia il numero delle circoscrizioni, pone il problema delle liste elettorali. Quelle che io chiamo gli “autobus” elettorali, sono liste che aggregano in una certa circoscrizione personalità che spesso non hanno nulla in comune, il cui unico scopo è quello di avvantaggiarsi dei voti degli altri appartenenti alla lista (l'elettore vota la lista di cui fa parte il candidato). Questo sistema provoca delle ingiustizie e delle iniquità perché: da un lato, l'elettore votando un membro della lista si trova obbligato a votarne altri che non voterebbe altrimenti; dall'altro, i candidati si trovano ad essere dipendenti, non dal voto dell'elettore, ma dai leader della lista (normalmente coloro che dispongono del maggiore bacino di voti all'interno della lista), di cui sfruttano la forza elettorale, ed ai quali devono obbedienza una volta eletti. Questo sistema è una catastrofe. È un sistema ideale per i potenti che si fanno pagare ingenti somme per inserire un candidato nella loro lista. Inoltre, con questo sistema i candidati outsider vengono facilmente tenuti ai margini. Il sistema proporzionale è complicato da applicare al sistema confessionale. Normalmente ogni partito procede, all'interno della sua lista, ad una classificazione dei suoi candidati. La distribuzione confessionale dei seggi complica le cose. Tra l'altro non è stata fatta ancora la simulazione matematica per determinare le attribuzioni dei seggi con questo sistema. Inoltre, nella situazione attuale, in cui certe forze politiche possiedono delle armi, si rischia che queste forze possano, attraverso la coercizione, ottenere molti voti. La cosiddetta proposta “greco-ortodossa” non è altro che la proposta di Elie Ferzli (uomo politico libanese vicino al regime siriano), un agente siriano, e non serve ad altro che a dividere il paese. Questa proposta ha l'effetto di tranquillizzare le comunità cristiane che vedono in essa la possibilità di poter scegliere direttamente i propri candidati. Di fatto provoca l'estremizzazione in senso comunitario del Parlamento. Questo perché con l'abolizione del sistema del collegio elettorale unico, il discorso politico si estremizzerà in senso comunitario, perché per un candidato, la sua elezione non dipenderebbe più dai voti dei connazionali membri di un'altra comunità. Questo sistema è catastrofico per i cristiani anche per un secondo motivo, perché farà delle elezioni un censimento indiretto, che rivelerà il reale peso politico dei cristiani in Libano. Questo potrebbe legittimare le pretese, delle comunità musulmane, di revisione della distribuzione delle quote comunitarie. Dunque tutti questi sistemi non funzionano. 

Qual'è la sua proposta? Il sistema che sarebbe meno nocivo, per una società come quella libanese, è il sistema della circoscrizione uninominale a doppio turno (sistema uninominale a doppio turno, 128 circoscrizioni, una per ogni seggio parlamentare da attribuire). Prima di tutto, in un tale sistema, le circoscrizioni non devono per forza essere uguali per numero di elettori, in Francia non lo sono, in Gran Bretagna non lo sono, ecc. Secondo, c'è una maggiore intesa inter-comunitaria su scala locale piuttosto che su quella nazionale. Semplicemente perché gli abitanti di una stessa area, qualunque sia la loro comunità d'origine, vanno nelle stesse scuole, negli stessi supermercati, negli stessi cinema, insomma si conoscono. Terzo, è l'unico sistema che obblighi gli eletti a dover render conto agli elettori. Infine, questo sistema rende più difficile la frode elettorale. Visto che le circoscrizioni comprenderebbero un numero ridotto di elettori, dunque di voti, questi sarebbero più facilmente controllabili. Stranamente di questo sistema elettorale non si è mai parlato in Libano. Credo faccia paura a molti. Con un tale sistema molti di coloro che sono stati eletti nel 2009 sarebbero fuori dal Parlamento. Inoltre, l'influenza dei capilista, dei potenti locali, sarebbe ridotta di molto.  

Si presenterà alle prossime elezioni (giugno 2013)? Preferisco non rispondere alla domanda. Non so ancora sotto quale legge elettorale si svolgeranno. È come se mi chiedesse di giocare ad un gioco di cui non conosco le regole.  

Per quanto riguarda la Siria, che idea s'è fatto della situazione? In generale, quando si verifica una rivoluzione, si parte da una reazione popolare, di cui approfittano, in un momento successivo, altre forze. Se si guarda ad esempio alla rivoluzione francese, questa è partita a causa del malcontento popolare per le difficili condizioni di vita. In un secondo momento gli ideologi hanno preso in mano la situazione. Stesso discorso per la rivoluzione iraniana (in un secondo momento i religiosi hanno preso in mano la situazione). In Siria la rivoluzione era inevitabile per diverse ragioni. Primo, le condizioni di vita dei siriani non sono mai migliorate. Secondo, la dominazione di un regime dittatoriale e violento è divenuta insopportabile. Terzo, il carattere arabo, per cui chi è al potere non può fare delle concessioni perché segno di debolezza. Ed infine, il sentimento che le situazioni possano durare in eterno. Com'è iniziata in Siria? Piccoli gruppi, isolati, hanno cominciato a rivendicare delle riforme e per questo sono stati violentemente repressi. Ma, più violenta era la repressione, maggiore era il numero di siriani coinvolti. Cosicché questo circolo di rivendicazione e repressione ha coinvolto un numero crescente di siriani, facendo effetto domino. Io conosco dei siriani che prima del marzo 2011 erano convinti sostenitori del regime e che col tempo si sono progressivamente avvicinati alla rivoluzione, e sto parlando di persone che appartengono all'alta borghesia siriana (che faceva affari col regime). Il regime pensava di potere ripetere i massacri del 1982 (nel 1982, ad Hama, il regime di Hafez al-Asad, schiaccia una rivolta guidata dai fratelli musulmani facendo decine di migliaia di vittime). Al giorno d'oggi, con i progressi fatti dalla tecnologia nel campo dell'informazione, non è più possibile distruggere una cittadina senza che il villaggio a fianco non ne sappia nulla. Credo quindi alla spontaneità della rivoluzione siriana nelle fasi iniziali. Col tempo però stanno prevalendo quelle forze che, per quanto minoritarie, sono più strutturate ed unitarie, perché coagulate intorno ad una dottrina forte di matrice religiosa.  

Quali crede che siano le priorità degli attori internazionali e regionali, relativamente alla situazione siriana? Per Israele la prima scelta sarebbe il mantenimento del regime alauita, perché suo alleato. Se questo dovesse cadere, la seconda opzione per Israele sarebbe lo smembramento della regione. In generale, le potenze straniere stanno manifestando una tendenza a voler lasciare la situazione marcire. Che interesse avrebbe la Russia a sostenere questo regime, sapendo che questo non può durare eternamente, se non quello di prendere tempo per lasciare marcire la situazione? Qual'è l'interesse di Israele se non quello di avere un medio oriente fatto di comunità in conflitto tra loro, piuttosto che di paesi strutturati che potrebbero avanzare pretese alle Nazioni Unite o divenire una minaccia alla sua sicurezza. D'altra parte Israele ha sempre preferito avere a che fare con gli estremisti. Per esempio in occasione della seconda intifada, Israele ha colpito l'Olp ed ha lasciato stare Hamas. É più facile dire di no a degli estremisti. Per tornare alla Siria, non credo alla teoria del complotto. Non credo che gli Stati Uniti abbiano questo potere di manovrare il mondo. Credo però che questi possano sfruttare una situazione che si viene a creare spontaneamente. Non credo nell'ipotesi di un intervento. La situazione economica dei paesi occidentali non è così florida e la memoria del fallimento in Iraq è ancora forte. Entrare in Iraq, occupandolo, è stato facile. Il difficile è stato uscirne, senza parlare del come era ridotto il paese una volta lasciato. In Libano, il Blocco Nazionale è stata la sola voce che si è opposta fin da subito all'intervento in Iraq. 

Un'ultima domanda più personale. Lei è nato in Libano, ma ha vissuto la maggior parte della sua vita in Brasile. Nel 2000, in seguito alla morte di suo zio, viene richiamato in Libano per succedergli alla testa del BN. All'improvviso si è trovato catapultato nella vita politica libanese. Da un punto di vista personale, come ha vissuto questi cambiamenti? Sebbene sia il pronipote di uno dei padri fondatori del Libano (Emile Eddé), il figlio ed il nipote di ex-deputati ed ex-ministri (Pierre e Raymond), sono stato cresciuto nel rifiuto della politica. Mio padre e mio zio mi hanno sempre scoraggiato dall'impegnarmi nella politica libanese. Quando mio zio è morto il partito non aveva un “numero due”. Quella libanese è una società fortemente clanica. Visto che ero il solo discendente che portava ancora il nome della famiglia, 17 ore dopo la morte di mio zio, senza che io ne sapessi niente, ero stato nominato alla testa del partito. La mia prima reazione è stata di rifiuto. Ho accettato, in seguito, solo perché la mia doveva essere una leadership di transizione, per dare il tempo al partito di preparare la successione. Sono 12 anni che sto aspettando un successore. Certamente tutto ciò mi ha stravolto la vita. Sono stati cambiamenti a cui non ero preparato e che non volevo. Mi sento più brasiliano che libanese e vengo dal settore privato. Il vantaggio della mia situazione è che mi permette di avere uno sguardo più distaccato sulla politica libanese ed un più ampio margine di libertà politica.

venerdì 6 aprile 2012

Statement by the Civil Campaign for Electoral Reform

After a long time of being forcibly and intentionally disregarded, the issue of the Parliamentary electoral law has suddenly and forcefully reemerged in political discussions. In the recent period, we have witnessed a number of statements and positions concerning the electoral law in general and proportional representation specifically, in addition to some hesitant demands for other reforms to be implemented, most notably non-resident voting and regulating electoral expenditure.

While the Civil Campaign for Electoral Reform encourages these discussions which it considers necessary, it reminds at the same time of the importance of complying with the legal deadline set by the Mikati Cabinet for adopting an electoral law by June 2012, which is to say that time is running out for any desired reform process. Thus, it is necessary to accelerate the discussions on the electoral file in the Cabinet and its transfer to the Parliament where it would be debated and adopted within the appropriate due processes.
Therefore, the Campaign urges all those concerned with this matter to assume their responsibilities towards their nation, and to grasp the opportunity for real and serious reform of the electoral law. The Campaign will also follow up on the efforts undertaken on this issue and will pressure decision makers in all possible ways for the adoption of proportional representation and the other reforms. For that purpose, CCER would like to announce that as part of the series of activities that it will be organizing in its effort to advocate for the adoption of a democratic electoral law, it is organizing a large popular activity on May 13 in order to urge the government to fulfill its obligations in this matter.

In a related context, the Campaign would like to reemphasize to all Lebanese citizens that the proportional representation system is the fairest and most accurate system in terms of representation, and that all statements being made today which portray proportional representation as a way to marginalize any group in society are inaccurate since these sides view the electoral law as nothing more than a tool for them to reach and maintain power.  Moreover, CCER deplores statements made by some that indicate the possibility of postponing elections in case no new electoral law was adopted or due to specific security issues. Hence, CCER renews its warnings on the dire consequences of delaying elections particularly as the Lebanese Constitution and numerous international agreements maintain the right of the Lebanese citizens to choose their representatives in periodic elections. The tendency to postpone elections is completely unacceptable and the Campaign will work to block such a plan as we did in the period preceding the Municipal elections in 2010.

Beirut, April 5, 2012