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martedì 8 luglio 2014

Carlos Eddé. Il Libano visto da un "brasiliano" (del 15 gennaio 2013)

Carlos Eddé, leader del partito Blocco Nazionale, è il discendente di una delle più importanti dinastie politiche libanesi, gli Eddé appunto. Suo nonno Emile è stato un importante uomo politico ed ex-presidente del Libano durante il Mandato francese. Suo zio, Raymond, e suo padre, Pierre, sono stati personaggi politici di grande rilievo. Con la morte dello zio, nel 2000, Carlos, cresciuto in Brasile, si è trovato senza volerlo catapultato nell'arena politica del paese dei cedri. Il suo essere in un certo senso un “estraneo”, gli consente di avere uno sguardo più distaccato sul paese. Lo intervistiamo per conoscere il suo parere su tre temi di grande attualità: il Dialogo Nazionale, il dibattito sulla riforma della legge elettorale e gli eventi siriani.  

Secondo lei, qual'è il principale ostacolo che blocca le trattative sul tavolo del Dialogo Nazionale (DN)? Bisogna fare un passo indietro e tornare agli inizi. Il DN era stato utilizzato, poco tempo dopo la “Rivoluzioni dei Cedri” (2005), da Nabih Berri per insabbiare la questione dell'impeachment dell'allora presidente della Repubblica Emile Lahoud. Io avevo fatto parte della commissione che se ne occupava. Nabih Berri ha fatto virare la discussione del Dialogo Nazionale sul tema delle armi di Hezbollah, facendo passare in secondo piano l'impeachement. Nel 2006 Hezbollah ha provocato la guerra contro Israele, distogliendo l'attenzione dal DN. Proprio durante una delle riunioni del DN, Hassan Nasrallah aveva dichiarato che non ci sarebbero state operazioni militari contro gli israeliani durante l'estate. Una settimana dopo siamo stati tutti colti di sorpresa. Quando si è tornati al tavolo del DN, la questione delle armi era diventata quella della “strategia di difesa nazionale”, ancora una volta per rigirare la frittata. Hezbollah (ed i suoi alleati), per studiare delle concessioni sulle armi, avevano chiesto in cambio l'elaborazione di riforme strutturali che portassero la struttura politica del paese verso un “triumvirato” (cristiani, sunniti, sciiti) e superassero l'attuale ripartizione dei poteri (50-50) tra cristiani e musulmani. La coalizione 14 marzo ha rifiutato tale condizione.  

Qual'è allora lo scopo del DN secondo lei? In generale, ogni volta che viene riesumato il DN è perché vogliono (8 marzo) insabbiare o bloccare qualche questione. Perché fare appello al DN quando c'è un Parlamento e cioè un luogo istituzionale deputato al dialogo politico nazionale? E perché dialogare con forze che non rispettano quegli impegni che hanno preso proprio al tavolo del DN? In seguito ci sono stati gli scontri del 7 maggio 2008 ed il “Diktat” di Doha (dopo il quale il BN lascia il 14 marzo).  

Perché ha lasciato la coalizione 14 marzo? Quali sono gli errori della coalizione per quanto riguarda il DN? Il mio rimprovero al 14 marzo, dal punto di vista della negoziazione con l'8 marzo, era quello di vendere ad un compratore che ha la reputazione di non pagare. Il DN fa parte della strategia “win-win” dell'8 marzo. Questi, chiamando al dialogo il 14 marzo, “vincono” in ogni caso. Se il 14 marzo accetta il dialogo vengono messi in un angolo (perché sulla questione delle armi solo Hezbollah ha l'ultima parola) e se non accettano vengono accusati di non volere il dialogo. Inoltre, c'è la questione degli attentati politici i cui sospettati ruotano intorno ad Hezbollah, compreso l'ultimo, quello del 19 ottobre in cui è rimasto ucciso Wissam al-Hassan. Perché cercare il dialogo con chi rifiuta di consegnare al Tribunale Speciale i 4 sospetti dell'attentato a Rafiq Hariri? Con chi non può decidere direttamente delle proprie azioni (perché controllato dall'Iran)? Ed infine, perché cercare il dialogo con una forza politica che è armata? 

Questa sua posizione rispetto ad Hezbollah è emersa anche in un recente articolo, nel quale lei ha criticato l'apertura che il patriarca maronita Bechara al-Rai ha fatto verso il partito sciita. Per quale motivo Hezbollah non sarebbe un interlocutore politico credibile? Se si torna alle dichiarazioni degli esponenti di Hezbollah, se si legge il libro scritto dal numero due del partito, lo sheikh Naim al-Qassem, si scopre che si dice nero su bianco: che Hezbollah è parte integrante della Rivoluzione iraniana; che la leadership è nominata dalla Rivoluzione iraniana; che il partito è subordinato alla Guardia rivoluzionaria (iraniana); ed infine, che tutte le decisioni più importanti sono prese, in ultima istanza, unicamente dalla Guida suprema della Rivoluzione iraniana. Quando si parla ad un partito che ha una leadership, degli ordini, dei finanziamenti, delle armi, una dottrina, ecc. che provengono direttamente dall'Iran...beh non si sta parlando ad un interlocutore libanese, si sta parlando con l'Iran. Hezbollah è uno strumento di politica strategica della Rivoluzione iraniana in Libano. Dunque non esiste dialogo possibile. L'unico tema sul quale avrebbe senso dialogare sono le armi, perché in presenza di armi non esiste un reale dialogo, non esiste una reale competizione elettorale.  

Nel 2009, il suo partito BN ha lasciato la coalizione 14 marzo. In alcune interviste lei ha lasciato intendere che i suoi ex alleati politici hanno “tradito” i principi e gli ideali che avevano animato la “Rivoluzione dei Cedri” nel 2005, in seguito alla quale la coalizione si era formata. Quali sono i problemi che l'hanno allontanata dalla coalizione 14 marzo? La coalizione 14 marzo si trova di fronte a due principali problemi: il primo è un problema strutturale dell'alleanza stessa. Questa è stata costruita contro qualcosa e non per qualcosa o per l'attuazione di un programma comune. Questo significa che la coalizione ritrova la sua unità solo se di fronte ad un pericolo imminente, altrimenti le sue varie componenti (molto diverse politicamente tra loro) vanno ognuna per conto proprio. Questa dinamica si è verificata diverse volte. La prima volta all'indomani della “Rivoluzione dei Cedri”, in occasione delle elezioni del 2005. Le forze politiche del 14 marzo hanno costruito le loro alleanze elettorali frammentandosi e senza costituire un blocco elettorale unitario. Ingenuamente hanno pensato che tendendo la mano ad Hezbollah potevano allontanarlo dalla Siria. Cadono sempre nelle stesse trappole. Non imparano mai dai loro errori. Inoltre, non hanno tenuto conto di una componente importante della coalizione, le forze della società civile (che hanno partecipato attivamente alla “Rivoluzione dei Cedri”), che non fanno parte dei partiti principali e che non ne condividono i programmi. Insomma sono incapaci di fare un piano e perseguirlo. Sanno solo fare una politica in reazione a qualcos'altro o di approfittare di situazioni contingenti com'è il caso adesso con ciò che succede in Siria.  

Per quanto riguarda il dibattito sulla riforma della legge elettorale, le proposte di legge sotto le quali si potrebbero tenere le prossime elezioni sono: quella del 1960 tornata in vigore con gli accordi di Doha nel 2008 (sistema maggioritario di lista ad un turno e 24 circoscrizioni elettorali); il disegno di legge approvato dal governo e discusso in commissione parlamentare (sistema proporzionale e 13 circoscrizioni elettorali); la proposta dei partiti conservatori cristiani, Forze libanesi e Partito Falangista (sistema maggioritario di lista ad un turno e 50 circoscrizioni elettorali); e la cosiddetta proposta “greco-ortodossa”, (sistema proporzionale, una sola circoscrizione per tutto il paese e l'abolizione del principio del collegio elettorale unico, cioè ogni cittadino può votare solo per i seggi destinati alla propria comunità d'appartenenza). Ci può fare un'analisi delle diverse alternative? Per quanto riguarda il Libano, prima di tutto bisogna precisare che qualsiasi sia la legge elettorale questa è falsata dal fatto che noi viviamo in un regime confessionale (come previsto dalla Costituzione libanese, le cariche politiche e dell'amministrazione pubblica, sono distribuite tra le principali comunità religiose, secondo un rapporto di 50-50 tra cristiani e musulmani,). L'accordo di Taif ha attribuito alle comunità cristiane la metà dei poteri pubblici, compresa la metà dei seggi del Parlamento. Dunque la competizione elettorale si gioca attraverso queste variabili. Il sistema maggioritario di lista ad un turno, qualsiasi sia il numero delle circoscrizioni, pone il problema delle liste elettorali. Quelle che io chiamo gli “autobus” elettorali, sono liste che aggregano in una certa circoscrizione personalità che spesso non hanno nulla in comune, il cui unico scopo è quello di avvantaggiarsi dei voti degli altri appartenenti alla lista (l'elettore vota la lista di cui fa parte il candidato). Questo sistema provoca delle ingiustizie e delle iniquità perché: da un lato, l'elettore votando un membro della lista si trova obbligato a votarne altri che non voterebbe altrimenti; dall'altro, i candidati si trovano ad essere dipendenti, non dal voto dell'elettore, ma dai leader della lista (normalmente coloro che dispongono del maggiore bacino di voti all'interno della lista), di cui sfruttano la forza elettorale, ed ai quali devono obbedienza una volta eletti. Questo sistema è una catastrofe. È un sistema ideale per i potenti che si fanno pagare ingenti somme per inserire un candidato nella loro lista. Inoltre, con questo sistema i candidati outsider vengono facilmente tenuti ai margini. Il sistema proporzionale è complicato da applicare al sistema confessionale. Normalmente ogni partito procede, all'interno della sua lista, ad una classificazione dei suoi candidati. La distribuzione confessionale dei seggi complica le cose. Tra l'altro non è stata fatta ancora la simulazione matematica per determinare le attribuzioni dei seggi con questo sistema. Inoltre, nella situazione attuale, in cui certe forze politiche possiedono delle armi, si rischia che queste forze possano, attraverso la coercizione, ottenere molti voti. La cosiddetta proposta “greco-ortodossa” non è altro che la proposta di Elie Ferzli (uomo politico libanese vicino al regime siriano), un agente siriano, e non serve ad altro che a dividere il paese. Questa proposta ha l'effetto di tranquillizzare le comunità cristiane che vedono in essa la possibilità di poter scegliere direttamente i propri candidati. Di fatto provoca l'estremizzazione in senso comunitario del Parlamento. Questo perché con l'abolizione del sistema del collegio elettorale unico, il discorso politico si estremizzerà in senso comunitario, perché per un candidato, la sua elezione non dipenderebbe più dai voti dei connazionali membri di un'altra comunità. Questo sistema è catastrofico per i cristiani anche per un secondo motivo, perché farà delle elezioni un censimento indiretto, che rivelerà il reale peso politico dei cristiani in Libano. Questo potrebbe legittimare le pretese, delle comunità musulmane, di revisione della distribuzione delle quote comunitarie. Dunque tutti questi sistemi non funzionano. 

Qual'è la sua proposta? Il sistema che sarebbe meno nocivo, per una società come quella libanese, è il sistema della circoscrizione uninominale a doppio turno (sistema uninominale a doppio turno, 128 circoscrizioni, una per ogni seggio parlamentare da attribuire). Prima di tutto, in un tale sistema, le circoscrizioni non devono per forza essere uguali per numero di elettori, in Francia non lo sono, in Gran Bretagna non lo sono, ecc. Secondo, c'è una maggiore intesa inter-comunitaria su scala locale piuttosto che su quella nazionale. Semplicemente perché gli abitanti di una stessa area, qualunque sia la loro comunità d'origine, vanno nelle stesse scuole, negli stessi supermercati, negli stessi cinema, insomma si conoscono. Terzo, è l'unico sistema che obblighi gli eletti a dover render conto agli elettori. Infine, questo sistema rende più difficile la frode elettorale. Visto che le circoscrizioni comprenderebbero un numero ridotto di elettori, dunque di voti, questi sarebbero più facilmente controllabili. Stranamente di questo sistema elettorale non si è mai parlato in Libano. Credo faccia paura a molti. Con un tale sistema molti di coloro che sono stati eletti nel 2009 sarebbero fuori dal Parlamento. Inoltre, l'influenza dei capilista, dei potenti locali, sarebbe ridotta di molto.  

Si presenterà alle prossime elezioni (giugno 2013)? Preferisco non rispondere alla domanda. Non so ancora sotto quale legge elettorale si svolgeranno. È come se mi chiedesse di giocare ad un gioco di cui non conosco le regole.  

Per quanto riguarda la Siria, che idea s'è fatto della situazione? In generale, quando si verifica una rivoluzione, si parte da una reazione popolare, di cui approfittano, in un momento successivo, altre forze. Se si guarda ad esempio alla rivoluzione francese, questa è partita a causa del malcontento popolare per le difficili condizioni di vita. In un secondo momento gli ideologi hanno preso in mano la situazione. Stesso discorso per la rivoluzione iraniana (in un secondo momento i religiosi hanno preso in mano la situazione). In Siria la rivoluzione era inevitabile per diverse ragioni. Primo, le condizioni di vita dei siriani non sono mai migliorate. Secondo, la dominazione di un regime dittatoriale e violento è divenuta insopportabile. Terzo, il carattere arabo, per cui chi è al potere non può fare delle concessioni perché segno di debolezza. Ed infine, il sentimento che le situazioni possano durare in eterno. Com'è iniziata in Siria? Piccoli gruppi, isolati, hanno cominciato a rivendicare delle riforme e per questo sono stati violentemente repressi. Ma, più violenta era la repressione, maggiore era il numero di siriani coinvolti. Cosicché questo circolo di rivendicazione e repressione ha coinvolto un numero crescente di siriani, facendo effetto domino. Io conosco dei siriani che prima del marzo 2011 erano convinti sostenitori del regime e che col tempo si sono progressivamente avvicinati alla rivoluzione, e sto parlando di persone che appartengono all'alta borghesia siriana (che faceva affari col regime). Il regime pensava di potere ripetere i massacri del 1982 (nel 1982, ad Hama, il regime di Hafez al-Asad, schiaccia una rivolta guidata dai fratelli musulmani facendo decine di migliaia di vittime). Al giorno d'oggi, con i progressi fatti dalla tecnologia nel campo dell'informazione, non è più possibile distruggere una cittadina senza che il villaggio a fianco non ne sappia nulla. Credo quindi alla spontaneità della rivoluzione siriana nelle fasi iniziali. Col tempo però stanno prevalendo quelle forze che, per quanto minoritarie, sono più strutturate ed unitarie, perché coagulate intorno ad una dottrina forte di matrice religiosa.  

Quali crede che siano le priorità degli attori internazionali e regionali, relativamente alla situazione siriana? Per Israele la prima scelta sarebbe il mantenimento del regime alauita, perché suo alleato. Se questo dovesse cadere, la seconda opzione per Israele sarebbe lo smembramento della regione. In generale, le potenze straniere stanno manifestando una tendenza a voler lasciare la situazione marcire. Che interesse avrebbe la Russia a sostenere questo regime, sapendo che questo non può durare eternamente, se non quello di prendere tempo per lasciare marcire la situazione? Qual'è l'interesse di Israele se non quello di avere un medio oriente fatto di comunità in conflitto tra loro, piuttosto che di paesi strutturati che potrebbero avanzare pretese alle Nazioni Unite o divenire una minaccia alla sua sicurezza. D'altra parte Israele ha sempre preferito avere a che fare con gli estremisti. Per esempio in occasione della seconda intifada, Israele ha colpito l'Olp ed ha lasciato stare Hamas. É più facile dire di no a degli estremisti. Per tornare alla Siria, non credo alla teoria del complotto. Non credo che gli Stati Uniti abbiano questo potere di manovrare il mondo. Credo però che questi possano sfruttare una situazione che si viene a creare spontaneamente. Non credo nell'ipotesi di un intervento. La situazione economica dei paesi occidentali non è così florida e la memoria del fallimento in Iraq è ancora forte. Entrare in Iraq, occupandolo, è stato facile. Il difficile è stato uscirne, senza parlare del come era ridotto il paese una volta lasciato. In Libano, il Blocco Nazionale è stata la sola voce che si è opposta fin da subito all'intervento in Iraq. 

Un'ultima domanda più personale. Lei è nato in Libano, ma ha vissuto la maggior parte della sua vita in Brasile. Nel 2000, in seguito alla morte di suo zio, viene richiamato in Libano per succedergli alla testa del BN. All'improvviso si è trovato catapultato nella vita politica libanese. Da un punto di vista personale, come ha vissuto questi cambiamenti? Sebbene sia il pronipote di uno dei padri fondatori del Libano (Emile Eddé), il figlio ed il nipote di ex-deputati ed ex-ministri (Pierre e Raymond), sono stato cresciuto nel rifiuto della politica. Mio padre e mio zio mi hanno sempre scoraggiato dall'impegnarmi nella politica libanese. Quando mio zio è morto il partito non aveva un “numero due”. Quella libanese è una società fortemente clanica. Visto che ero il solo discendente che portava ancora il nome della famiglia, 17 ore dopo la morte di mio zio, senza che io ne sapessi niente, ero stato nominato alla testa del partito. La mia prima reazione è stata di rifiuto. Ho accettato, in seguito, solo perché la mia doveva essere una leadership di transizione, per dare il tempo al partito di preparare la successione. Sono 12 anni che sto aspettando un successore. Certamente tutto ciò mi ha stravolto la vita. Sono stati cambiamenti a cui non ero preparato e che non volevo. Mi sento più brasiliano che libanese e vengo dal settore privato. Il vantaggio della mia situazione è che mi permette di avere uno sguardo più distaccato sulla politica libanese ed un più ampio margine di libertà politica.

venerdì 6 aprile 2012

Statement by the Civil Campaign for Electoral Reform

After a long time of being forcibly and intentionally disregarded, the issue of the Parliamentary electoral law has suddenly and forcefully reemerged in political discussions. In the recent period, we have witnessed a number of statements and positions concerning the electoral law in general and proportional representation specifically, in addition to some hesitant demands for other reforms to be implemented, most notably non-resident voting and regulating electoral expenditure.

While the Civil Campaign for Electoral Reform encourages these discussions which it considers necessary, it reminds at the same time of the importance of complying with the legal deadline set by the Mikati Cabinet for adopting an electoral law by June 2012, which is to say that time is running out for any desired reform process. Thus, it is necessary to accelerate the discussions on the electoral file in the Cabinet and its transfer to the Parliament where it would be debated and adopted within the appropriate due processes.
Therefore, the Campaign urges all those concerned with this matter to assume their responsibilities towards their nation, and to grasp the opportunity for real and serious reform of the electoral law. The Campaign will also follow up on the efforts undertaken on this issue and will pressure decision makers in all possible ways for the adoption of proportional representation and the other reforms. For that purpose, CCER would like to announce that as part of the series of activities that it will be organizing in its effort to advocate for the adoption of a democratic electoral law, it is organizing a large popular activity on May 13 in order to urge the government to fulfill its obligations in this matter.

In a related context, the Campaign would like to reemphasize to all Lebanese citizens that the proportional representation system is the fairest and most accurate system in terms of representation, and that all statements being made today which portray proportional representation as a way to marginalize any group in society are inaccurate since these sides view the electoral law as nothing more than a tool for them to reach and maintain power.  Moreover, CCER deplores statements made by some that indicate the possibility of postponing elections in case no new electoral law was adopted or due to specific security issues. Hence, CCER renews its warnings on the dire consequences of delaying elections particularly as the Lebanese Constitution and numerous international agreements maintain the right of the Lebanese citizens to choose their representatives in periodic elections. The tendency to postpone elections is completely unacceptable and the Campaign will work to block such a plan as we did in the period preceding the Municipal elections in 2010.

Beirut, April 5, 2012

martedì 29 marzo 2011

Movimento in crescendo

Il movimento anti-confessionale libanese scende per la terza volta in piazza in meno di un mese e dimostra di avere un seguito in continua crescita



Beirut, 20 marzo 2011 – Il 27 febbraio scorso il movimento aveva emesso il suo primo vagito. Nonostante una pioggia torrenziale 2mila persone avevano risposto all'invito lanciato su Facebook da un gruppo creatosi spontaneamente sull'onda dell'entusiasmo suscitato dalle rivolte tunisine ed egiziane. Il gruppo chiamava i cittadini libanesi, a prescindere dalla confessione di appartenenza, a manifestare contro il regime confessionale-comunitario accusato di approfittare delle divisioni religiose per sostenere una classe politica corrotta e composta da ex criminali di guerra. La domenica successiva, 6 marzo, con una nuova manifestazione anti-settaria che ha attraversato la città di Beirut dal quartiere di Dora (periferia est) all'Elecrticity bldg. (nel quartiere di Mar Mikhael Nahr) il movimento era riuscito a dare una nuova prova di forza. Alla fine della manifestazione secondo le forze dell'ordine avevano partecipato 7mila persone, per gli organizzatori 15mila, ma il dato era chiaro, il movimento era riuscito a convincere molti/e a scendere in piazza per chiedere un cambiamento. Dopo due settimane di pausa (domenica 13 marzo la coalizione 14 marzo ha celebrato il sesto compleanno in Piazza dei Martiri) il movimento che si oppone al regime confessionale-comunitario è tornato in piazza sempre senza insegne di partito, sempre solo armato di bandiera libanese, ma ancora più numeroso ed ancora più convincente. Questa volta a sfilare lungo il percorso che andava da Place Sassine al Ministero degli Interni (di fronte al Sanayeh Garden) ci sono state ben 25mila persone. Lo slogan è stato ancora una volta “Ashab iurid asqat an-nizam at-taifi!” (la gente vuole la caduta del regime comunitario!). Ma non solo, attorno alla richiesta dell'abolizione del regime comunitario-confessionale (che vuol dire abolizione della divisione per comunità delle cariche politiche e delle quote comunitarie in parlamento), se ne sono coagulate molte altre come l'adozione di una legge elettorale proporzionale (in cui il Libano diventi un singolo distretto elettorale), l'introduzione nell'ordinamento dello statuto e del matrimonio civile, la possibilità per le donne di dare la nazionalità ai propri figli e ai propri mariti (qualora questi siano stranieri), ma anche richieste sociali, quali migliori condizioni lavorative, aiuti economici più consistenti da parte dello Stato verso le fasce più povere della popolazione e politiche statali che rendano il diritto alla casa, all'educazione e alla sanità più accessibili per tutti i cittadini libanesi. In segno di buon augurio il passaggio del corteo è stato più volte salutato dal lancio di riso da parte dei curiosi affacciati a finestre e balconi che hanno ricevuto il boato di ringraziamento dei manifestanti entusiasti. Davanti al Ministero degli Interni il corteo era atteso da altri giovani del movimento che proprio lì da diverse settimane hanno sistemato le proprie tende. La manifestazione si è quindi conclusa dopo il rituale inno nazionale libanese cantato da tutti e dopo la lettura delle rivendicazioni da parte di una rappresentante del movimento di fronte alle telecamere del canale televisivo libanese Al-Jadida. Con l'innegabile successo di questa terza giornata di mobilitazione il movimento ha dimostrato che sempre più gente vuole la caduta del regime.

Ghigo Orson Galera

foto di Noura Nasser

domenica 20 marzo 2011

La Seconda Rivoluzione dei Cedri?

La coalizione "14 marzo" per celebrare il sesto anniversario della Rivoluzione dei Cedri (14 marzo 2005), chiama il proprio popolo a radunarsi in massa come sei anni fa in Piazza dei Martiri nel centro di Beirut. Questa volta non per chiedere il ritiro delle forze siriane dal territorio libanese, ma per dire “NO!” alle armi “illegittime” di un avversario interno, Hezbollah.

Beirut, 13 marzo 2011 - Sono appena le prime ore del giorno, quando si cominciano a sentire in lontananza i primi segni della giornata che sarà. Il clima è perfetto, cielo terso e sole primaverile. Dalle 9.00 inizia un crescendo di clacson, di megafoni, di cori e di vociare. Il popolo del 14 marzo ha cominciato ad affluire verso piazza dei Martiri dove tutto è stato attrezzato già dal giorno prima per celebrare il sesto anniversario della Rivoluzione dei Cedri. A partire dalle 11.00 sono previsti, in ordine di importanza, gli interventi di vari leader ed esponenti della coalizione in un climax che avrà il suo culmine col discorso di Saad Hariri, primo ministro fino al 12 gennaio scorso, ora in carica ad interim.

Avvicinandosi alla piazza aumenta la concentrazione delle forze di polizia e dell'esercito che per evitare disordini hanno blindato la piazza con posti di blocco (utilizzando i carri armati) già a qualche centinaio di metri dall'ingresso della stessa. La piazza è tutta transennata e per accedervi bisogna passare per una perquisizione. Non solo, i leader si rivolgeranno alla piazza protetti da una schermatura in vetro antiproiettile che li dividerà dai loro sostenitori. Insomma nulla o quasi è lasciato al caso.
Una volta passati i controlli si apre davanti agli occhi una piazza carica di sole, persone e bandiere. Intorno al milione di presenze, si dirà poi, provenienti da tutto il Libano, ma anche dall'estero, dai paesi della diaspora libanese (Francia, Canada, Gran Bretagna, Stati Uniti, Costa d'Avorio, ecc.).
A prevalere sono le bandiere del Libano, ma non mancano bandiere di partito, quelle azzurre del movimento di Hariri Tayyar al-Mustaqbal (Corrente del Futuro), bandiere falangiste (del partito Kataeb), bandiere delle Forze Libanesi (partito di Samir Geagea) e un po' a sorpresa si intravedono alcune bandiere del Partito Socialista Progressista (partito druso) a testimoniare una seppur piccola, ma significativa fedeltà della comunità drusa alla coalizione. Nei mesi scorsi infatti il leader del partito druso, Walid Jumblat, ha lasciato la coalizione 14 marzo per aggregarsi a quella dell'8 marzo (consegnando a quest'ultima, seppure per pochi deputati, la maggioranza parlamentare). C'è chi dice, maliziosamente, per evitare ritorsioni da parte di Hezbollah e/o della Siria, c'è chi dice per senso di responsabilità nazionale.

A vegliare sulla piazza ci sono le gigantografie dei volti dei Martiri della Rivoluzione dei Cedri: Rafiq Hariri, Samir Kassir, George Hawi, Gebran Tueni, Pierre Amine Gemayel, Walid Eido, Antoine Ghanem. Uomini politici e giornalisti tutti assassinati tra il giugno 2005 ed il settembre 2007.

La parola d'ordine di questa giornata è “NO!” (“LA!” in arabo). “LA!” si legge sulle magliette e sui berretti di numerosi presenti. No alle armi che non siano quelle dell'esercito regolare libanese, no ai ricatti delle milizie armate (chiaro riferimento al partito/milizia sciita Hezbollah), no all'abbandono da parte del prossimo governo dell'intesa stipulata con l'ONU per il Tribunale Speciale per il Libano (TSL), no alla strategia stragista mirata ad eliminare personaggi scomodi della politica e della cultura che ha caratterizzato il recente passato del paese, no all'influenza delle potenze straniere nella vita politica libanese (Iran, Siria, ma anche Israele).

Dopo una serie di interventi da parte dei leader dei partiti minori e di altri esponenti della coalizione, tra cui Elias Atallah, della Sinistra Democratica (partito che ha tra i suoi fondatori uno dei martiri il giornalista Samir Kassir, ucciso nel giugno del 2005), Sebouh Kalbakian del partito della comunità armena Henchak e Dory Chamoun del Partito Liberale Nazionale, è stata la volta dei big.


Ad aprire le danze è Samir Geagea, il “Dottore” (Hakim), come viene chiamato qui, carismatico e controverso leader delle Forze Libanesi, nonché ex warlord condannato all'ergastolo per aver ordinato quattro omicidi politici durante la guerra civile (tra cui quello dell'ex premier Rashid Karami) e in libertà grazie ad un'amnistia votata dal Parlamento appositamente per lui nel luglio 2005.
Un grande boato della folla segue l'annuncio del suo arrivo sul palco, seguito dal coro “HAKIM! HAKIM!” che contagia tutta la piazza.
Geagea scalda i presenti annunciando una Seconda Rivoluzione dei Cedri, questa volta non diretta all'allontanamento di un nemico esterno dal territorio libanese (all'epoca le forze siriane), ma contro un nemico interno armato, Hezbollah, e contro il suo “statelet”, Stato nello Stato.

Anche Amin Gemayel alla testa del partito falangista Kataeb (ex milizia), riafferma i principi della Rivoluzione dei Cedri. Secondo l'ex Presidente della Repubblica, Hezbollah ha dimenticato la sua funzione anti-israeliana, ha dimenticato le varie questioni territoriali causa di controversie tra i due paesi confinanti e ha rivolto verso l'interno il suo potenziale militare servendosene nella discussione politica come leva di ricatto costante. Il suo solo obiettivo, secondo Gemayel, è l'annullamento dell'intesa stipulata dal Libano con l'ONU sul TSL (che si suppone stia per accusare alcuni esponenti di primo piano del partito sciita), ma “noi vogliamo che il TSL faccia luce sulla verità”. Insiste ancora l'ex presidente affermando che “l'unità e la stabilità del paese non potranno mai essere realizzate senza che le armi illegittime vengano rimosse”. Solo così è possibile “salvare il Libano e costruire lo Stato”.

Nell'attesa del leader della coalizione, Saad Hariri, vengono srotolati lungo i due lati dell'edificio del Virgin Megastore, alle spalle del palco, due enormi teli. Da un lato la bandiera libanese, dall'altro una gigantografia del sovrano saudita Abd Allah bin Abd al-Aziz Al Saud a ribadire, se ce ne fosse bisogno, chi c'è dietro alla famiglia Hariri e al sostegno alla comunità sunnita libanese.

La musica annuncia l'imminente arrivo di Saad Hariri e partono i cori “Saad! Saad!” sulla scia dei quali fa il suo ingresso trionfale il quarantenne figlio dell'ex premier Rafiq Hariri (ucciso sei anni fa in un attentato e sul cui assassinio sta investigando il già citato Tribunale Speciale per il Libano). La piazza si scalda per la presenza sul palco del suo leader e per il sole già pienamente primaverile nonostante sia appena metà marzo. Hariri con un gesto che si addice più ad una rockstar che ha un capo di partito si toglie la giacca e si rimbocca le maniche, la folla apprezza ed esulta. Faticando a sovrastare con la sua voce gli incitamenti della folla comincia il suo discorso. E' “impossibile che le armi sconfiggano un popolo che chiede verità, giustizia e democrazia”. “Noi non rinunceremo alla nostra libertà, alla democrazia e alla Costituzione” e aggiunge che tutte le armi fuori dal controllo dello Stato devono essere consegnate all'esercito, questo “Non è impossibile!”. “Ciò che vogliamo è che sia l'esercito libanese a difenderci da Israele” e non Hezbollah. Al contrario, insiste Hariri, “impossibile è che qualcuno mantenga la propria poltrona per venti anni”, facendo riferimento a Nabih Berri leader di Amal (movimento sciita che fa parte della coalizione 8 marzo) da venti anni Presidente della Camera. “Accettate armi che siano fuori dal controllo dello Stato? Accettate un governo che cerchi di eliminare il TSL?” Saad Hariri incalza la piazza che euforica ad ogni domanda risponde all'unisono con un secco “NO!”. E ancora “Accettate che il Libano sia in mani straniere?” (alludendo all'Iran e alla Siria). “Avete sentito loro (8 marzo) dire ancora una volta che (ottenere ciò che rivendichiamo) è impossibile. Ma questo non funzionerà perché già sei anni fa, quando Rafik Hariri fu martirizzato e ci siamo riuniti in questa piazza, sapevamo che nulla è impossibile" ribadisce Hariri.

Terminato il discorso il leader sunnita saluta il suo popolo e lo invita a seguire il corteo di auto (dei SUV blindatissimi) con cui si allontanerà dalla piazza, per un ultimo bagno di folla. La piazza risponde accerchiando il corteo di vetture parcheggiate dietro al palco per salutare il proprio beniamino. Poi tutti tornano a casa, chi a piedi, chi in macchina, chi a bordo di un autobus sgangherato; stanchi, ma soddisfatti per le parole di fermezza che hanno sentito pronunciare dai propri leader.

L'unico “incidente” della giornata viene registrato in serata nella regione della Bekaa dove alcuni giovani hanno bloccato le strade dando fuoco ad alcuni pneumatici per ostacolare il rientro di coloro che tornavano da Beirut. Una piccola provocazione che non ha macchiato una giornata sostanzialmente di festa.

Ghigo Orson Galera

Libano: rischio guerra civile?

Con l'approssimarsi della pubblicazione dell'atto d'accusa del Tribunale Speciale per il Libano (TSL) ed il protrarsi della crisi politica, si moltiplicano le espressioni di preoccupazione per la situazione libanese da parte di capi di stato e di governo, dei media nazionali ed internazionali e dei comuni cittadini.
Nei “Service” (taxi libanesi), nei caffè, tra amici, la domanda che domina le discussioni è se questa crisi porterà ad uno scontro tra comunità (o addirittura ad una nuova guerra civile) oppure se al contrario si risolverà attraverso una pacifica mediazione politica.

Ma quali sono le ragioni di tale crisi politica? Cos'è il Tribunale Speciale per il Libano (TSL) ? Chi trarrebbe vantaggio da una degenerazione militare della crisi politica? C'è davvero da preoccuparsi per una guerra civile?

Le ragioni della crisi, riassunto delle puntate precedenti
La crisi politica libanese dipana lentamente la sua matassa, anche se il nodo che deve venire al pettine è ancora lontano dall'essere sciolto. Il nodo si chiama TSL, il pomo della discordia al centro del dibattito politico libanese ormai da più di un anno e mezzo, cioè da quando è trapelata la notizia (pubblicata nel maggio del 2009 dal quotidiano tedesco Der Spiegel e ripresa da un reportage della CBC canadese nel novembre 2010), che nell'atto d'accusa del procuratore canadese Bellemare (incaricato di investigare sull'attentato in cui ha trovato la morte l'ex premier Rafiq Hariri insieme ad altre 22 persone il 14 febbraio 2005) sarebbero presenti i nomi di alcuni esponenti di primo piano del partito/milizia sciita Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”). Da luglio scorso è iniziato un braccio di ferro tra le due coalizioni 14 marzo (Saad Hariri) e 8 marzo (Hezbollah) sul TSL, con relativa crisi politica che ha bloccato l'attività del governo Hariri (Saad, figlio di Rafiq) e che si è concluso con lo scioglimento dello stesso il 12 gennaio scorso a seguito delle dimissioni di 11 ministri, 10 della coalizione 8 marzo (Hezbollah, Amal, e il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun) e di uno tra i cinque nominati dal presidente Sleiman (la Costituzione libanese prevede lo scioglimento automatico del governo nel caso in cui più di 1/3 dei ministri si dimettano, in questo caso 11 su 30). Parallelamente, una fantomatica quanto apparentemente inefficace trattativa è stata condotta a livello internazionale tra Siria ed Arabia Saudita per mediare tra le parti ed evitare il peggio (nuovi scontri inter-comunitari come accaduto nel maggio 2008). Altre polemiche hanno accompagnato le consultazioni che hanno portato alla formazione della nuova maggioranza parlamentare, questa volta pro-8 marzo, e la designazione del nuovo primo ministro il sunnita Najib Miqati (imprenditore, uomo tra i più ricchi del paese).
Il primo ministro uscente, Saad Hariri (14 marzo), da un lato, ha accusato Miqati di tradimento perché eletto deputato nel 2009 tra le fila della sua stessa coalizione e perché troppo accondiscendente verso le richieste di Hezbollah relative all'abbandono da parte del governo dell'intesa sul TSL stipulata con l'ONU. Dall'altro, accusa l'8 marzo di essere responsabile di un colpo di stato consumatosi con la caduta del governo e la rottura di fatto dell'accordo di Doha del 2008. Miqati risponde dichiarando che il suo non sarà un governo di parte, ma “consensuale” (cioè rappresentativo di tutte le componenti comunitarie), inoltre lascia aperta la prospettiva di un governo tecnico visto che il 14 marzo ha già avvertito che non parteciperà al prossimo governo. L'8 marzo afferma invece di aver agito nell'ambito democratico delle facoltà che gli sono consentite dalla Costituzione in quanto opposizione e rinvia al mittente le accuse di colpo di stato. Negli ultimi giorni la coalizione di Hariri ha lasciato intendere di voler aprire margini di dialogo per la formazione del nuovo governo, tant'è che Amin Gemayel (cristiano maronita), leader del partito falangista (Kataeb, coalizione 14 marzo) ha dichiarato di “Voler dare una chance al governo Miqati” anche se, ha ribadito, che in ogni caso si adeguerà alla decisione presa all'interno della coalizione. Nel frattempo è cominciata la spartizione dei ministeri ancora tutta da definire. In pole position, con le loro richieste e pressioni, ci sono Michel Aoun per il Ministero degli Interni (leader del Movimento Patriottico Libero, cristiano) e Nabih Berri (Presidente della Camera e leader di Amal, sciita) entrambi della coalizione 8 marzo.

Cos'è il Tribunale Speciale per il Libano ?
Il TSL è un organismo delle Nazioni Unite creato ad hoc, su richiesta del governo libanese, per investigare sull'attentato dinamitardo in cui il 14 febbraio del 2005 ha trovato la morte l'ex-premier libanese Rafiq Hariri insieme ad altre 22 persone. Inoltre la giurisdizione del tribunale può essere estesa agli attentati avvenuti in Libano tra il 1 ottobre 2004 ed il 12 dicembre 2005.

Il TSL presenta alcuni punti non chiari che interessano principalmente tre aspetti: la sua legalità internazionale, la sua costituzionalità interna e l'autenticità degli intenti di coloro che ne hanno promosso la creazione.

I dubbi sulla legalità internazionale del TSL concernono la competenza di un tribunale internazionale a giudicare di un crimine che dovrebbe essere materia di giurisdizione interna di uno Stato sovrano. Il TSL rappresenta un'eccezione rispetto ai tribunali internazionali istituiti nel passato proprio nel suo mandato. Per il diritto internazionale, la competenza di tali tribunali riguarda i cosiddetti crimina iuris gentium come il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. L'attentato a Rafiq Hariri non appartiene a nessuna di queste categorie.

Per quanto concerne la legalità interna, i dubbi riguardano il rispetto della Costituzione libanese che prevede all'art. 52 che i trattati internazionali siano negoziati dal Presidente della Repubblica in accordo col Primo Ministro e che vengano ratificati dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento.
Innanzitutto, l'accordo col quale è stato istituito il TSL non è stato ratificato dal Parlamento per l'opposizione del Presidente della Camera Nabih Berri che si è rifiutato di convocare la seduta. Il primo ministro dell'epoca Fouad Siniora ha dunque semplicemente inviato una lettera al Segretario Generale dell'ONU nella quale affermava che, nonostante la mancata votazione, era stato informato che la maggioranza dei parlamentari si era dichiarata favorevole all'istituzione del tribunale e dunque sollecitava una rapida adozione delle azioni necessarie alla sua creazione.
Inoltre tale accordo è stato ratificato il 23 gennaio 2007 da un Consiglio dei Ministri privo della sua componente sciita contrariamente a quanto dispone la Costituzione (6 ministri sciiti si erano dimessi alla fine del 2006 a seguito della crisi di governo provocata dall'aggressione israeliana del luglio-agosto dello stesso anno). Il Libano è un paese nel quale convivono 18 diverse comunità confessionali. La sua Costituzione prevede che in ogni organismo statale, a livello politico o amministrativo, siano rappresentate tutte le componenti comunitarie. Qualsiasi accordo siglato da un governo privo di una di queste è dunque da ritenersi un atto quantomeno di dubbia costituzionalità.

Per quanto riguarda poi l'autenticità degli intenti dei promotori del tribunale, anche questa lascia numerosi dubbi. Il TSL è nato su richiesta del primo ministro Fouad Siniora, con lo scopo di aiutare il Libano a cercare la verità sull'attentato a Rafiq Hariri e assicurare i responsabili alla giustizia.
Il Libano è un paese che è uscito solo nel '90 da una sanguinosa guerra civile durata 15 anni, durante la quale è stato devastato dai bombardamenti e che ha visto nel paese consumarsi atrocità di ogni genere le cui cicatrici sono ancora oggi evidenti nella società libanese e sulle mura degli edifici di Beirut. Dunque, perché non creare un tribunale per investigare sui crimini compiuti e giudicare i criminali della guerra civile? Perché non chiudere una volta per tutte questa pagina dolorosa che è stata di gran lunga la più significativa della recente storia libanese e che indubbiamente sarebbe materia di competenza di un tribunale internazionale? Il problema è che i leader delle milizie responsabili dei crimini sono tutti in parlamento o nel governo.
Secondo, il 18 luglio 2005, solo qualche mese dopo l'attentato, e solo qualche mese prima che il governo libanese inviasse all'ONU una formale richiesta per la creazione di un tribunale (13 dicembre 2005), il parlamento libanese, lo stesso parlamento che aveva dato la fiducia al governo di Rafiq Hariri, ha votato una legge di amnistia grazie alla quale Samir Geagea (leader di una delle milizie che hanno insanguinato il Libano durante la guerra civile), condannato all'ergastolo, è stato liberato. Geagea (maronita) è attualmente in parlamento e leader del partito Forze Libanesi alleato della coalizione 14 marzo.

Chi trarrebbe vantaggio da una degenerazione militare della crisi politica?
Una tra le macroscopiche anomalie della vita politica libanese è rappresentata dal fatto che Hezbollah, oltre ad essere un partito dell'arco parlamentare che interagisce con le altre forze nel “normale” dialogo democratico, è anche una milizia, l'unica a non avere ufficialmente consegnato le armi dopo la guerra civile. In realtà più che una milizia si tratta di un vero e proprio esercito, più attrezzato (dall'Iran con la complicità della Siria) ed organizzato dello stesso esercito regolare, tanto da essere riuscito a respingere nel luglio-agosto del 2006 l'aggressione dell'esercito israeliano nel sud del Libano.
Il problema democratico che questa situazione pone sul piano interno è facilmente intuibile, è difficile dialogare alla pari con qualcuno che possiede una pistola e non esita a brandirla, ma anzi la mostra con fierezza e ne giustifica il possesso attribuendosi il ruolo di resistente, di difensore della patria. Ed è proprio per il suo ruolo di “Resistenza” anti-israeliana che tale presenza militare è stata finora tollerata. C'è però un precedente in cui le armi della Resistenza sono state rivolte contro altri libanesi e cioè in occasione degli scontri del maggio 2008 che hanno opposto i sostenitori di Hariri a quelli di Hezbollah (conflitto tutto interno alla comunità musulmana sunniti i primi, sciiti i secondi).
Tale potenza di fuoco garantisce a Hezbollah sul piano nazionale il controllo del sud del Libano e di aree di Beirut a maggioranza sciita, un vero e proprio "Stato nello Stato" che si occupa anche di costruire scuole, ospedali, ecc. Nel confronto con Israele essa costituisce un convincente fattore deterrente che garantisce, per ora, la “Pace” o sarebbe meglio dire la non-belligeranza.
In un tale scenario, nonostante Israele ed Hezbollah continuino costantemente a stuzzicarsi, sembra improbabile che una delle parti abbia una reale intenzione ad impegnarsi in un conflitto dall'imprevedibile esito. Aprire un fronte sud per Hezbollah significherebbe indebolirsi sul piano interno, proprio ora che è già alle prese con un faticoso braccio di ferro politico con gli avversari del 14 marzo. Israele è già stato sconfitto nel 2006 ed ha già il suo bel da fare e da preoccuparsi nel capire cosa sarà del futuro della regione ed in particolare dell'Egitto dopo le recenti rivoluzioni.
Per quanto riguarda la coalizione 14 marzo, nonostante le frizioni interne, sembra abbia già definito i suoi obiettivi cardine: il sostegno al TSL, una campagna per un non-weapon state (cioè il disarmo di Hezbollah) e la protezione dei beni libanesi pubblici e privati. Per ora questo complesso incastro di interessi sembra garantire la “stabilità” del Libano, almeno fino alla pubblicazione dell'atto d'accusa del TSL e spiega l'evoluzione politica attuale, il cambio di maggioranza e le difficoltà di Miqati nella costruzione di un governo consensuale.

C'è davvero da essere preoccupati per una ripresa della guerra civile?
Alla luce di quanto detto finora mi sento di sbilanciarmi verso una risposta negativa, che rimane però un modesto parere a cui si aggiunge il fattore dell'imprevedibilità mediorientale. Modesto parere confortato però da numerose opinioni raccolte qui a Beirut (giornalisti, analisti, amici/che, tassisti, cittadini comuni) secondo le quali, al massimo, si verificheranno scontri isolati un po' come nel 2008, ma niente di più.

Nell'attesa della pubblicazione dell'atto d'accusa ci si gode i caffè sul lungomare della Corniche ed il tiepido inverno libanese.

Ghigo Orson Galera

"Il popolo vuole la caduta del regime comunitario-confessionale"

Beirut, 6 marzo 2011 - La manifestazione del 27 febbraio era stata ostacolata da una pioggia torrenziale, ma era riuscita comunque a radunare intorno alle 2000 persone, selezionando il nocciolo duro della protesta. Già si intravedeva una buona partecipazione anche nel senso di varietà nella provenienza sociale e confessionale dei partecipanti. Dalla manifestazione del 6 marzo dunque ci si aspettavano conferme in termini di quantità e di qualità.
Per quantità intendo banalmente il numero dei presenti, per qualità la varietà della provenienza comunitaria degli stessi.

Una domanda fondamentale da porsi è se l'abbattimento del regime confessionale-comunitario possa divenire un obiettivo che riesca ad unire i libanesi piuttosto che a dividerli ulteriormente. Direi che con la manifestazione di domenica (6 marzo) il popolo libanese abbia risposto a questa sfida "Presente!". Questa ha dimostrato che c'è una fetta ampia e soprattutto trasversale della società che non appoggia questo sistema e pretende un cambiamento.

Lo slogan più gettonato è stato lo stesso che ha caratterizzato la manifestazione del 27 febbraio e le più celebri rivoluzioni tunisina ed egiziana ovvero “Ashab iurid asqat an-nizam al-taifi”!! il popolo vuole la caduta del regime, con una piccola variazione tutta libanese che testimonia la particolarità della situazione nel paese dei cedri, infatti qui si aggiunge “al-taifi” che sta per comunitario-confessionale (quindi “Il popolo vuole la caduta del regime comunitario-confessionale!”).

La lunga giornata di mobilitazione, di domenica 6 marzo, si è aperta con un incontro alle 11 in una sala dell'Unesco bldg durante il quale, davanti ad una platea di qualche centinaia di persone, tra cui numerosi giornalisti e telecamere, le varie componenti del movimento hanno definito slogan e dettagli della manifestazione. I toni della discussione si sono alzati improvvisamente quando si è abordato l'argomento Hezbollah e relativa milizia, in questo momento tema molto sentito in tutto il paese. I “pro” sostengono che sia una forza necessaria di resistenza a Israele, i “contro” che le forze di Hezbollah debbano essere assorbite da quelle dell'esercito nazionale o comunque debbano essere poste sotto il controllo dello Stato perché rappresentano una minaccia per la democrazia. Il nodo è stato superato rimandando la discussione ad un secondo momento in quanto problema secondario.
Erano presenti in sala due esponenti di Amal vicini al Presidente della Camera Nabih Berri. Sono stati allontanati per evitare rischi di strumentalizzazione. Tra l'altro Lunedì 7, il giorno dopo la manifestazione, lo stesso Berri ha dichiarato di sostenere il movimento e ha invitato i simpatizzanti del suo partito, Amal (sciita), a partecipare a titolo personale alle prossime manifestazioni. La riunione si è conclusa verso le 13h30.

La manifestazione è partita da Dora (che si legge Daura) intorno alle 15 e si è diretta verso l'Electricity bldg nel quartiere di Mar Mikhayel Nahr, presidiato niente meno che da un carro blindato, dove si è conclusa poco prima delle 18. L'Electricity bldg è la sede dell'ente libanese per l'energia elettrica criticato per la sua corruzione e la sua poca trasparenza, quindi simbolo del regime confessionale.

A marciare c'erano davvero tutti/e, tutte le fasce d'età da 0 a 90 anni, molte famiglie con i bambini, alcuni molto piccoli, (questo anche ad indicare che si è trattato di una manifestazione assolutamente pacifica) e persone più anziane. C'erano le donne, donne velate e non, sunnite, sciite, cristiane, laiche, atee, ecc. C'erano figure religiose, so che ha partecipato Gregoire Haddad (87 anni), soprannominato a suo tempo “l'eveque rouge” (il vescovo rosso), religioso cristiano di rito greco-cattolico, figura molto importante anche dal punto di vista politico. E' stato il fondatore negli anni '60 del Mouvement social, associazione caritatevole di matrice cristiana impegnata sul piano sociale, ma anche su quello della laicità. C'era lo cheiyk Ali Al Sayad figura religiosa sunnita, e membro di Dar al-Fatwa (autorità religiosa sunnita), al quale ho chiesto come mai un religioso partecipasse ad una manifestazione per la laicità. Lui mi ha risposto che a causa del sistema confessionale i politici usano la religione e le divisioni religiose a proprio favore per acquisire potere ed arricchirsi tessendo reti clientelari e di corruzione, quindi lui era naturalmente contrario a quest'uso distorto della Fede.
Ovviamente c'erano gli attivisti del gruppo organizzatore, militanti della sinistra, c'erano studenti, intellettuali, ma soprattutto c'era ciò che un po' era mancato domenica 27 febbraio e cioè la gente comune. Anche i curiosi ai bordi della strada, le persone affacciate alle finestre e ai balconi che guardavano il corteo sfilare erano più propensi a sorridere e a salutare piuttosto che a fischiare o disapprovare.

Le voci circolate sul numero dei partecipanti sono state molto discordanti e sono passate da un minimo di 3.000 ad un massimo di 20.000 persone. Alcuni giornali hanno parlato di 15.000 presenze. Insomma si può ritenere che fra le 10.000 e le 15.000 persone sia un'approssimazione ragionevole. A prescindere dai numeri e dalle virgole, il dato che conta è indubitabile. C'è stata una forte partecipazione e la manifestazione è stata decisamente un successo. Anche questa volta senza bandiere di partito, ma con molte bandiere libanesi, tutti/e a cantare l'inno nazionale, all'insegna dell'unione del popolo libanese contro un sistema che lo vuole diviso. Per quanto riguarda il futuro del movimento gli organizzatori non si sbilanciano, quando ho chiesto ad Ali o ad Arabi, quale pensano sia il prossimo passo, mi hanno risposto che la gente lo deciderà, perché come spesso tengono ad affermare si tratta di un movimento spontaneo, nato da un'esigenza sentita da molti/e e sarà la “strada” a dare la direzione. Intanto alcune riunioni sono previste per i prossimi giorni. Credo che, come è stato fino ad ora, riceverò presto, su Facebook, un invito a partecipare alla prossima manifestazione perché “La gente vuole che il regime cada!”.

Ghigo Orson Galera

giovedì 19 agosto 2010

Gli arabi sono usciti dalla storia - Intervista a Iskandar Habash

17/02/2009

Intervista a Iskandar Habash, giornalista e scrittore, sul ruolo dell'intellettuale nel mondo arabo

Iskandar Habash è scrittore, professore di filosofia e giornalista per le pagine del quotidiano libanese as-Safir. Ha scritto diversi saggi e raccolte di poesia. Di origine palestinese, è nato a Beirut, dove vive tuttora.

iskandar habashNella crisi attuale che attraversa il Medio Oriente e il mondo arabo in generale dove è l'intellettuale? E quale è il suo ruolo in queste società?

L'intellettuale arabo non può avere un ruolo nelle società arabe oggi perché è messo a margine sia dai regimi sia dall'affermazione sempre più forte dei partiti religiosi. Negli anni 1950-1960 si che l'intellettuale aveva un ruolo, poi ha fallito per varie ragioni. Una è che le società arabe non hanno saputo adattarsi alla modernità. Un'altra causa, da non dimenticare, è che la rivoluzione islamica in Iran nel 1979 ha influito e indebolito molto i pochi intellettuali progressisti che ancora esistevano nel mondo arabo. I partiti religiosi hanno cominciato così ad affermarsi a spese dei partiti laici. In Libano è successo con l'affermazione di Hezbollah nei primi anni Ottanta. Dopo la decolonizzazione dei paesi arabi, gli intellettuali hanno avuto un grande ruolo, ma poi tutti i regimi arabi si sono trasformati in regimi militari o dittatoriali. Questi regimi non vogliono un sistema laico e progressista, preferiscono un sistema religioso anche estremista ma che possono controllare. Quale è il ruolo dell'intellettuale oggi? L'intellettuale scrive, ma non viene ascoltato. Le sue idee non circolano nella società.

Quanta influenza ha oggi la voce dell'intellettuale nel mondo arabo e in Libano in particolare?

Non hanno nessuna influenza. Sono i partiti religiosi che riescono a far scendere nelle strade milioni di persone, non un intellettuale. Poi appena un intellettuale comincia ad avere una certa influenza allora viene ucciso o messo in prigione. Quanti giornalisti sono stati uccisi in Libano tra il 2005-2006?

Quale è il rapporto tra l'intellettuale libanese e il sistema confessionale?

Abbiamo due tipi di intellettuali: c'è chi rifiuta il confessionalismo e resta dunque escluso dalla società, e c'è invece chi accetta e entra a far parte di questo sistema.

i funerali di samir kassir, giornalista libanese ucciso in un attentatoLa condizione araba attuale potrebbe essere il risultato di una reazione sbagliata all'irruzione della modernità in questo mondo?

Certo. Bisognerebbe come prima cosa 'modernizzare' questa società. Oggi nel mondo arabo ci sono moltissime persone analfabete. La società è molto indietro bisogna ammetterlo. E tutto questo indietreggiamento, questo takhalof, viene mascherato con cose futili e superficiali. L'unica idea condivisa da tutti è quella religiosa.

Crede che nel mondo arabo si legga abbastanza?

La società araba non legge e se vuoi qui c'è un paradosso. L'Islam dice: Iqra, leggi. I libri più venduti sono quelli di cucina, oroscopi e bellezza. Un romanzo vende 2mila copie in dieci anni. Immagina! Poi internet, al posto di essere un modo per veicolare la cultura, ha invece allontanato la gente dalla lettura. E poi la gente, se si interessa alla letteratura, si interessa a quella sacra.

Intellettuali come forze civili opposte ai governanti?

Non può costituire una forza civile. Alcuni fondatori di partiti importanti nel mondo arabo sono stati degli intellettuali come Michel Aflaq per il Ba'ath, trasformatosi poi in una dittatura, o Antoun Sa'adeh per il Partito nazional-socialista siriano, che ha fallito.

Cosa ne è della nahda, la rinascita letteraria araba?

Il problema è che la nahda non ha saputo oltrepassare l'idea di Dio. Dio non si può discutere. L'Islam ha bisogno di riforme. Vedi ad esempio il fatto che l'arabo è la lingua del Corano un testo rivelato da Dio non si può discutere sulla riforma della lingua. La lingua letteraria si è evoluta pochissimo Il dialetto, quello si, che si è evoluto. Ci vogliono circa dieci anni per creare un neologismo nella lingua araba.

E il futuro della società araba come lo vede?

Male, sono molto pessimista. Gli arabi sono usciti dalla storia. L'Europa produce e noi consumiamo. Questa società non può continuare cosi. Una rivoluzione sociale? La vedo difficile. La gente che si ribella lo fa arruolandosi nelle milizie dei vari partiti religiosi. Bisogna risolvere il problema della Palestina, questo è il grande problema del mondo arabo. Guarda, tutti i leader nei loro discorsi usano la causa palestinese per legittimarsi tra la gente, se il problema palestinese fosse risolto forse i vari regimi potrebbero cominciare a perdere la loro legittimità. Ma purtroppo attualmente non vedo nessuna soluzione!

Erminia Calabrese

Peacerepoerter - http://it.peacereporter.net/articolo/14282/Gli+arabi+sono+usciti+dalla+storia

Rai News - Intervista a JOUMANA HADDAD caporedattrice di JASAD

Scrivere con le unghie - Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad

05/06/2

Intervista alla poetessa libanese Joumana Haddad, caporedattrice della rivista Jasad

scritto per noi da
Linda Chiaramonte

Un'intelligenza acuta e una profonda capacità di analisi unite a grande sensibilità e sensualità contraddistinguono la giornalista e poetessa libanese Joumana Haddad. Donna che non ama i cliché, come dimostra la sua produzione, e che al contrario vuole ribaltarli. L'indipendenza e la libertà di pensiero sono le sue cifre stilistiche, anche a costo di risultare scomoda sostenendo posizioni impopolari.

La Haddad è fra le più importanti poetesse arabe contemporanee, dal dicembre scorso anche capo redattrice della rivista trimestrale Jasad (corpo in arabo), responsabile delle pagine culturali del quotidiano libanese an-Nahar, vincitrice del premio del giornalismo arabo nel 2006, autrice della raccolta di poesie Adrenalina, la prima pubblicata in Italia nelle scorse settimane dalle Edizioni del Leone. La rivista Jasad, specializzata nella letteratura e le arti del corpo in tutte le sue rappresentazioni, fra cui anche sessualità ed erotismo, argomenti tabù nel suo paese, la rendono un prodotto editoriale quasi rivoluzionario. Abbiamo incontrato Joumana Haddad a Bologna, ospite nei giorni scorsi della facoltà di Lingue, e le abbiamo rivolto alcune domande.

Dopo quanti anni arrivano in Italia le sue poesie?

Ho iniziato a scrivere a 12 anni, ho pubblicato il primo libro nel 1995, la prima traduzione in lingua straniera è del 2003. In tutti questi anni sono stata tradotta in inglese, francese, tedesco, spagnolo, mi pesava non esserlo ancora in italiano, lingua che amo molto.

Come definisce la sua poesia?

Scrivo con le mie unghie. Non è facile definire la mia scrittura, è un modo di scavare dentro di me, cioè dentro al mondo. Sono convinta che il mondo non sia fuori, ma dentro di noi. Scavare dentro di me mi aiuta a scoprirmi e a scoprire il mondo. Ognuno di noi è una folla, non una sola persona, e queste persone diverse a volte litigano fra loro, io le ascolto, e ascoltare queste voci e poter scrivere quello che dicono per me è la poesia.

Perché una rivista con al centro il tema del corpo, cosa l'ha spinta a farlo?

Il progetto, ideato 2 anni fa, è una sorta di figlio culturale. La rivista, di duecento pagine, distribuita in tutte le edicole del Libano, vende in zone in cui non ci si aspettava, come nella periferia sciita di Beirut. Fuori dal Libano arriva in abbonamento e molti lettori sono dell'Arabia Saudita, dove la rivista è censurata, sembrerebbe una contraddizione, in realtà non lo è. È logico che proprio in quei luoghi ci sia più curiosità. A volte la censura contribuisce alla distribuzione. La rivista non si occupa solo di sessualità e del corpo 'erotico', questa è solo una delle rappresentazioni, anche se è stata definita la prima rivista che parla di sesso nel mondo arabo. Di Jasad sono anche editrice, lo stampatore preferisce restare anonimo per evitare fastidi. Purtroppo non c'è pubblicità, ho finanziato il progetto da sola. Per me era importante che la rivista uscisse in formato cartaceo, per lanciare una sfida di concretezza, che fosse in arabo per il peso che ha la lingua, e che non avesse pseudonimi per un'assunzione di responsabilità nella scrittura. Collaborano freelance di tutto il mondo arabo: Siria, Egitto, Giordania, Marocco, Arabia Saudita, ci sono ancora poche donne. A spingermi a realizzarla è stato un bisogno. Ho sempre scritto sul tema del corpo, così quando ho deciso di avviare questo progetto editoriale, la scelta è stata naturale. Il fatto che risponda ad un bisogno è dimostrato dal successo di vendite, anche perché nel mondo arabo si è giunti ormai ad un punto in cui parlare di temi relativi al corpo è diventato un tabù. Non era così in passato, ci sono libri del X, XI secolo di un erotismo e di una libertà meravigliosi. Mi è sembrata un'ingiustizia per la lingua araba privarla di questa parte essenziale del suo vocabolario, del suo potenziale capace di esprimere certi concetti, ho voluto contribuire a far cambiare un po' le cose.

Crede di essere coraggiosa per averlo fatto?

No. Piuttosto sono una donna molto ostinata che continua a fare quello che vuole fare. Forse anche questo richiede coraggio, ma sono ostinazione e passione a spingermi.

Ha ricevuto minacce per i temi trattati dalla rivista, vero?

Ci sono abituata, già per le mie poesie sono oggetto di attenzione, ma non m'interessa. Con la rivista è più evidente visto che l'influenza di un giornale è più forte della poesia, anche se vorrei fosse il contrario. È normale che accada, ma finora non sento di correre pericoli. Non ho cambiato nulla nella mia vita e non voglio farlo. Ricevo sia lettere di sostegno che di insulti.

La rivista, che esce nelle edicole del Libano e solo in lingua araba, tratta però temi universali. Esiste una declinazione libanese del corpo?

Non è destinata solo al Libano, ma a tutto il mondo arabo. Non credo alla definizione del corpo libanese o arabo. Il corpo è il corpo, è un linguaggio universale, è proprio questa la sua bellezza. È una cosa che ci riguarda tutti. Quando si fa un incontro d'amore con una persona di cui non si parla la lingua, i corpi parlano e si capiscono, non c'è bisogno di parole e di altri punti comuni. Già questa è una lingua universale. La ragione per cui ho scelto l'arabo è per lanciare una sfida a questa società e a questa cultura che negano ad una lingua bellissima il diritto di esprimere certe cose. Non credo che il corpo libanese abbia delle particolarità necessariamente diverse, abbiamo i nostri problemi, ma ce ne sono alcuni che condividiamo con tutto il mondo, ad esempio la violenza fisica e psichica. La rivista non è fatta per il corpo degli arabi e non parla del corpo degli arabi, ma parla del corpo dagli arabi agli arabi. Ci sono diversi cliché sulla donna araba molto diffusi in occidente fra cui il velo, l'essere musulmana e sottomessa. Il pericolo che si corre per il Libano è anche quello di cadere in un anti cliché. È vero che nel mio paese, molto diverso dall'Arabia Saudita, ci sono tante contraddizioni e che ci sono donne emancipate, ma non lo sono per la legge. La realtà della donna libanese è difficile, piena di frustrazioni, oppressione, spesso chi vive la sua libertà lo fa in maniera superficiale, senza andare in fondo nelle battaglie sociali. Ricorrendo ad esempio ad un uso eccessivo della chirurgia estetica quasi come fosse uno strumento per conquistare emancipazione. Perciò non esiste una donna araba, non so se io lo sono, alcuni elementi tipici non si applicano a me. Ci sono molte idee formate che si vorrebbero confermare parlando di donna araba, ma ci sono ben 22 paesi arabi diversi, fatti di donne altrettanto diverse fra loro. Nel mio paese donne in minigonna camminano fianco a fianco a donne velate, le une vorrebbero imporre la loro visione alle altre e viceversa. L'importante è rispettare le differenze e il diritto ad essere come si vuole.

Quali sono gli elementi che accomunano tutte le donne, a tutte le latitudini oltre le barriere geografiche?

È questo che m'interessa, le cose che condividiamo non solo come donne ma come esseri umani, e sono tante. Che si sia di Beirut, Bologna o della Colombia, ci sono elementi universali: l'amore, la sofferenza, la perdita, la paura, tutto quello che fa un essere umano. A volte forse sento più punti comuni con un uomo nato 50 anni fa in un luogo che non ha niente a che vedere con il mondo arabo che con la mia vicina di casa che ha vissuto le mie stesse esperienze ed ha la mia stessa età. Il fatto di essere donne ci da una certa caratteristica, ma non è l'unica cosa che ci forma, ma sono il modo in cui viviamo le esperienze, guardiamo la vita, sogniamo. Cose queste che ci fanno trovare punti in comune con gente che si penserebbe molto lontana dal proprio modo di essere. Le cose superficiali, il luogo in cui si è nati, ciò che è scritto sulla carta d'identità, il colore degli occhi, che forse si condivide con molti della propria città, non fa che si sia simili. Nella poesia Donna parlo di una gabbia costruita da altri e questo è un tema universale. Ognuno di noi, uomo, donna, africano, colombiano, ha una gabbia intorno. Ognuno può riconoscersi in questi temi, può ritrovare se stesso. Mi ha emozionata il commento di un uomo che si è ritrovato in questa poesia in cui parlo di me. Significa che ho potuto realizzare quello a cui aspiro attraverso la mia scrittura: da donna scrivere per tutti e di tutto. Non solo trasmettere il mio essere donna, ma essendolo trasmettere il mio essere un essere umano che vive, pensa, sogna, soffre, pianifica, che si sente frustrata o in una gabbia e che cerca di fuggire. La gabbia può essere politica, sociale, psichica, fisica, anche che ci si è costruiti da soli. Cosa in cui noi esseri umani abbiamo molto talento.

Jasad è una rivista araba, scritta in arabo e fatta da idee arabe. Fatta da dentro e non da fuori. Perché la scelta che tutto sia arabo?

Ci sono diverse ragioni, la principale è voler evitare le facili accuse che vengono mosse nel mondo arabo, ogni qualvolta si fanno scelte trasgressive, di importare dall'occidente un certo concetto del corpo, anche se per me questa non rappresenta un'accusa. Si viene tacciati di importare valori occidentali nel mondo arabo. Ci tenevo a dimostrare che non è vero, che questi valori non sono solo occidentali, ma anche arabi, fanno parte della nostra lingua, della nostra cultura e della nostra eredità. Quando recensiamo le mostre allestite fuori dal mondo arabo è importante che gli articoli siano scritti da arabi per arabi, che ci siano idee arabe. La rivista contiene testi molto liberi, erotici. Sono stata accusata di pornografia, ma chi si aspetta di sfogliare Jasad come una sorta di versione araba di Playboy resta deluso perché all'interno ci sono articoli seri che possono risultare anche noiosi. È facile fare provocazione, soprattutto se si è della mia parte del mondo, ma ha senso se vi va oltre, se si costruisce qualcosa. Essere contestata per Jasad è un prezzo da mettere in conto, ma sono convinta che ci sia bisogno di parlare di questi argomenti, non sono gli unici, ma io ho scelto la mia battaglia. È un progetto facile da attaccare perché è molto vulnerabile.

Perché è sempre sul corpo delle donne che si combattono le guerre e si consumano vendette? Sono spesso le prime vittime.

Perché veniamo da una lunga storia di maschilismo, di società patriarcali. Quando viaggio in Europa tante donne mi dicono di riconoscersi nelle mie frustrazioni di donna dell'oriente. Questo mi stupisce, si crederebbe che per la donna europea alcune cose appartengano al passato, invece non è così per tutte.

Lei parla di responsabilità delle donne, non solo di colpe degli uomini. In che senso?

La condizione di subalternità femminile c'è a tutte le latitudini, ma biasimare gli uomini per questo sarebbe facile. La colpa è anche delle donne che si rifanno a idee preconfezionate su come si trasmettono educazione e principi ai propri figli maschi, da madri. Anche qui ci sono da ritrovare le colpe delle donne. C'è spesso una complicità pericolosa contro le donne stesse. Io provengo da una famiglia cristiana che mi ha educata in maniera molto severa, da ragazzina non potevo andare al cinema da sola, ma ora da adulta e madre di due figli maschi, provo a far cambiare le cose da dentro. Ci sono molte più donne nemiche delle donne che uomini. Non ho nessun rapporto con le associazioni femministe e non lo voglio avere, perché non voglio essere inserita in una categoria, fare una lotta per i diritti delle donne con un titolo o con un grande nemico: l'uomo. Credo nella complicità fra i due sessi. Migliorare la condizione della donna facendo dell'uomo un nemico è una lotta sterile che non mi convince. Le lotte collettive delle associazioni sono importanti, ma non sono le mie, io ho scelto qualcosa di diverso. Il cambiamento non dobbiamo aspettarlo pensando che a concedercelo debba essere l'uomo, ma dobbiamo ottenerlo ad ogni costo, facendo degli sforzi.

Che orizzonti vede per il suo Paese?

Non sono molto ottimista, ci sono molti problemi a livello politico e questo inevitabilmente influenza il modo di vivere, di pianificare. Quello che si fa è sempre condizionato a qualcosa di più grande di noi, molto rischioso, e che non si può controllare. C'è sempre un elemento che non si può controllare, ovunque, ma quando si tratta di un elemento di destabilizzazione continua può rallentare tutto ciò che si vuole fare e questo può gettare nella disperazione. Presto avremo le elezioni, non so prevedere come andranno, c'è una scissione fortissima. Si parla molto di diversità, è vero che il Libano è un paese fatto di contraddizioni, pluralismo, ma stiamo andando verso una direzione in cui non si rispetta più che l'altro sia diverso e questo è molto pericoloso. Non ha senso vivere in un luogo in cui si parla di convivenza se non si rispetta o non si è rispettati per le proprie diversità. Aspetto con ansia questa scadenza, ma è difficile prevedere come andrà, è un Paese che vive sempre su un vulcano.

Peacereporter - http://it.peacereporter.net/articolo/16110/Scrivere+con+le+unghie

Il Libano di fronte a se stesso - Intervista a Geroges Corm, intellettuale libanese, che racconta il Paese dei Cedri tra passato e futuro

24/06/2009

Intervista a Georges Corm, economista e storico libanese, consulente di diversi organismi internazionali e docente all'Università Saint-Joseph di Beirut, autore di diversi libri sui problemi dello sviluppo del mondo arabo, come Storia del Medio Oriente e Libano contemporaneo

scritto per noi da
Francesca Borri

La Linea Verde già nessuno sostiene di ricordare dove e cosa sia. Ma perché in realtà, Beirut gli è come implosa dentro. Guerriglieri indistinguibili dai civili pattugliano le strade delle periferie sciite, poi un centro in via di ricostruzione, lo chiamano DownTown, e guardie private in kalashnikov a presidiare gli Armani e Ferragamo, e il culto pagano di Rafiq Hariri opposto a quello di Hassan Nasrallah. Dieci anni indiscussi da primo ministro, il suo mausoleo è la sintesi della Beirut che ha voluto, una tenda accanto alla moschea, per prato una moquette e margherite di plastica.
Il Libano è una di quelle volte che l'atlante inganna. Dicono Medio Oriente, in realtà è nei Balcani. E poi però, Georges Corm e, improvviso, il Mediterraneo che torna, leggero e potente, "luogo di mezzo che si interroga sulla relazione, in quella risacca che lascia su ogni sponda il segno dell'altro", il Mediterraneo che è metafora, e non geografia.

Chi era Rafiq Hariri?
Una figura tipica degli anni Novanta, ma non solo in Libano: il magnate della finanza internazionale, le origini della cui ricchezza non sono mai state chiarite. Negli anni della guerra civile (1975 - 1990) era l'uomo d'affari di fiducia del futuro re dell'Arabia Saudita: i libanesi, allo stremo, avevano bisogno di denaro, e lui era lì, provvidenziale, con una liquidità inesauribile. Ha comprato di tutto. Poi si è dedicato anche ad attività benefiche, in particolare borse di studio: ed è diventato il salvatore. Sunnita, sostenuto incondizionatamente dall'Arabia Saudita, dunque dagli Stati Uniti, Hariri aveva accesso immediato presso i potenti del mondo, Vaticano incluso, ed era anche molto vicino alla Francia perché amico di Chirac. Era perfetto per affascinare la borghesia cristiana, privata dalla guerra del suo antico potere: un musulmano moderato filo-occidentale, con idee liberali in economia: si pensava che avrebbe arginato l'influenza sciita, Hezbollah in particolare, e che avrebbe spazzato via ogni forma di nazionalismo arabo. Era l'uomo del capitalismo. Ma la sua nuova repubblica non ha affatto ristabilito l'intesa nazionale: dominata da un ristretto gruppo di azionisti, è stata invece la repubblica degli scandali finanziari e della corruzione ostentata. Speculazioni monetarie, aumenti artificiali dei costi di ricostruzione, opere pubbliche sovradimensionate. Ma anche la raccolta dei rifiuti, il contrabbando dai confini siriani, un cartello nell'importazione di petrolio e gasolio, l'arbitrio nel pagamento delle indennità ai rifugiati, le concessioni pubbliche attribuite senza asta, il monopolio dei media e soprattutto tassi altissimi sui buoni del Tesoro, emessi in numero superiore alle necessità dello stato per consentire il più facile degli arricchimenti. Eppure nessuno ha opposto una reale resistenza. Perché la guerra non ha lasciato che un vuoto di idee e valori.

Ma che Libano immaginava?
Una riedizione del vecchio sogno della borghesia cristiana del commercio, una specie di Montecarlo del Medio Oriente. Come Paese tradizionalmente addetto ai servizi, il Libano non poteva certo rimanere ai margini della riorganizzazione economica regionale prospettata da americani e israeliani nel solco del processo di Oslo: nel nome adesso del più ferreo neoliberismo, quello secondo cui lo stato e l'azione collettiva non sono che forme di distorsione e spreco. Arricchirsi, è stata questa l'ideologia della ricostruzione, e questa è ancora, senza la minima nozione di bene pubblico. Le ferite della guerra sembrano curabili solo attraverso il successo individuale negli affari, a immagine e somiglianza di Rafiq Hariri, l'uomo partito dal nulla. E l'icona di tutto questo è la ricostruzione di Beirut, mediante l'appello ai capitali privati della penisola arabica e una società che si è appropriata illegalmente del patrimonio di migliaia di cittadini: in un genocidio architettonico e culturale che ha travolto l'aspetto da casbah della Beirut storica, della Beirut mediterranea. L'obiettivo è la centralità del centro di Beirut, senza alcuna inclusione delle periferie e senza alcuna riorganizzazione complessiva del paese. Ma in passato Beirut aveva potuto proporsi nel ruolo di piazza commerciale e bancaria solo a causa del ritardo di cui soffriva la regione sul piano delle infrastrutture. Oggi la morfologia del Medio Oriente è profondamente diversa. Un progetto simile non è dunque che una rimozione e negazione della realtà: e soprattutto, della realtà di una popolazione devastata dalla guerra, con necessità e priorità radicalmente altre. Mentre il Libano continua a essere moneta di scambio geopolitico, la nuova élite non è animata che da un desiderio di denaro. Dallas-sur-Mer: potrebbe essere questo il nome attuale di una Beirut in cui si intrecciano tradizionali rivalità tra famiglie e violenti scontri finanziari. Quanto ai libanesi, sono solo comparse. Tassisti, camerieri, guardie private.

Sull'assassinio di Hariri giudica oggi un tribunale speciale delle Nazioni Unite, perché non c'è pace si dice, senza giustizia. Secondo Cesare Beccaria, però, era importante non tanto la severità, quanto l'infallibilità della pena: dopo una guerra da 150mila vittime, giustizia per un uomo solo.
Intanto questo tribunale arriva da una duplice violazione della costituzione libanese. Perché non è stato chiesto da tutte le forze politiche all'unanimità, e i ministri sciiti in opposizione hanno lasciato il governo - che invece deve includere tutte le confessioni. Invece non solo il governo residuo non ha rassegnato le dimissioni, ma ha accettato l'istituzione del tribunale, che tecnicamente avveniva mediante un trattato internazionale, senza la necessaria ratifica del presidente della Repubblica. Alla fine, dopo mesi di paralisi, il tribunale è entrato in vigore con un intervento del Consiglio di Sicurezza ai sensi del capitolo 7 della Carta delle Nazioni Unite, che consente misure coercitive a fronte di una minaccia alla pace - prima ancora che la commissione di inchiesta avesse presentato le proprie conclusioni. Ma la vera peculiarità di questo tribunale è la sua competenza: un omicidio, invece che crimini di guerra e crimini contro l'umanità. Da libanese, io non posso che volere un tribunale per tutti i crimini compiuti. 150mila persone sono state uccise dalle varie milizie, 18mila sono scomparse nel nulla. Per non parlare di Israele e delle sue aggressioni. E anche se sono crimini che non entrano in prescrizione, nessuno ha mai proposto un tribunale internazionale. Hariri non è stato né il primo né l'ultimo a rimanere ucciso in un attentato, né in Libano né altrove. Certo i tempi sono cambiati, la giustizia penale internazionale conosce oggi una straordinaria espansione. Ma esattamente negli anni in cui si istituiva un tribunale per la Jugoslavia, e poi per il Ruanda, qui si approvava una amnistia. Non è solo questione di tempi che cambiano. Questi tribunali sono interventi politici, non semplicemente giudiziari. All'epoca, in tanti abbiamo chiesto una commissione di verità e riconciliazione sul modello del Sudafrica. Ma è stato inutile.

Ieri cristiani contro musulmani. Oggi filo-occidentali contro filo-siriani. Le semplificazioni in bianco e nero sono spesso 'fratture immaginarie', per riprendere il titolo del suo libro su Oriente e Occidente. Un tribunale, che con le sue sentenze separa in innocenti e colpevoli, non contribuisce a queste logiche?
Ormai i media internazionali classificano i libanesi in due campi a tenuta stagna: gli anti-siriani, gli alleati democratici dell'Occidente guidati essenzialmente dalla famiglia Hariri, e i pro-siriani, e dunque pro-iraniani, che minano il futuro. Il vostro Libano è un ritratto in bianco e nero: ogni sfumatura è sospettata di sostegno al terrorismo. Le commissioni di inchiesta che hanno preceduto il tribunale, e che oggi hanno già tutti dimenticato, sono state estremamente significative. La prima, presieduta dal tedesco Mehlis, dopo un solo mese di indagini ha consegnato un rapporto a senso unico, sulla base di testimonianze che poi si sono rivelate infondate. Si accusava la Siria, insieme agli apparati di sicurezza libanesi, di avere creato l'atmosfera in cui è maturato l'assassinio. Era un rapporto del tutto impermeabile alla complessità di questo Paese: divideva il Libano in democratici e terroristi, come se i ferrei anti-siriani di adesso non abbiano avuto in passato relazioni molto strette con la Siria - Hariri incluso. E così si è arrivati all'arresto di quattro alti ufficiali dei servizi di sicurezza, senza mezzo contraddittorio con gli accusatori. E il Paese è tornato nell'anarchia. Poi è arrivato il belga Brammertz, e le indagini hanno riacquisito credibilità, ma comunque il tribunale è stato istituito quando ancora non si aveva un'accusa ufficiale contro qualcuno. La sua prima decisione, la scarcerazione degli ufficiali, è stata ineccepibile. Ma niente garantisce che l'intossicazione politica non si ripeta. Chi e come elaborerà i fascicoli alla base del lavoro dei giudici?

Secondo Danilo Zolo, l'obiettivo di questi tribunali non può che ridursi all'esemplarità della pena, in un regresso al medioevo, alle cerimonie collettive di stigmatizzazione del nemico. Carla del Ponte ha intitolato le sue memorie La Caccia. Eppure Hezbollah ha accettato democraticamente una sconfitta elettorale inattesa.
Hezbollah è considerato un gruppo terroristico che attacca Israele senza alcuna giustificazione, e che Israele ha dunque il diritto di sradicare. Le vittime civili, qui, non sarebbero dovute che alla codardia di Hezbollah, che terrebbe i libanesi in ostaggio in forma di scudi umani. E che sarebbe parte di quella nebulosa jihadista animata da Bin Laden, un fascismo islamico incompatibile con i più elementari diritti della persona. Ma Hezbollah, più semplicemente, è un movimento di resistenza. Ha condotto una guerriglia implacabile contro ventidue anni di occupazione, fino a quella vittoria che nessun esercito arabo aveva saputo ottenere. Ed è molto efficiente anche nell'azione di governo, come Hamas. Hezbollah non è affatto telecomandata da Damasco o Teheran: da anni, ormai, è completamente inserita nella politica nazionale, forte di consenso e fiducia. La realtà è che siamo davanti a nient'altro che la forma contemporanea dei movimenti di liberazione degli anni della decolonizzazione. Movimenti ampiamente sostenuti dai sovietici e da Nasser, senza che questo scalfisse minimamente l'autenticità della sollevazione popolare, né la sua legittimità. E quanto all'intonazione religiosa, non è che speculare in fondo a quella di Israele, che si definisce uno stato ebraico - con il sostegno di un Occidente che si propone adesso come erede dei valori giudeo-cristiani: un abisso, rispetto al vecchio richiamo alle radici greco-romane. E cioè radici fondamentalmente pagane, panteiste, politeiste: l'istituzionalizzazione del pluralismo, la contaminazione tra divinità e culture, non la loro reciproca esclusione. Non l'autismo di una visione monolitica della salvezza, al di fuori della quale non rimangono che tenebre, e dunque l'intolleranza e la violenza. Non il mondo delle terre promesse, dei profeti degli eletti, ma il ragionamento logico, il dialogo socratico.

La via per la stabilità del Libano passa per l'attuazione della Risoluzione 1559 sul disarmo di Hezbollah?
Anche qui - nessuno insiste mai sull'attuazione delle risoluzioni che riguardano Israele, a partire dal ritiro dai territori occupati e il ritorno dei rifugiati palestinesi. L'Iraq ha subito un embargo criminale, che ha falciato decine di migliaia di bambini, per non avere rispettato le risoluzioni delle Nazioni Unite. Ed è stato brutalmente punito per la sua invasione del Kuwait. Perché non anche Israele per le sue ripetute aggressioni? Come per il nucleare - si discute solo dell'atomica iraniana. Eppure continuate a non percepire l'impatto destabilizzante di questa vostra costante strumentalizzazione del diritto internazionale. L'attuale crisi libanese ha due dimensioni. La prima è interna, e contrariamente a quanto si crede taglia trasversalmente le comunità: perché abbiamo gli stessi governanti dal 1990, cristallizzati intorno a Rafiq Hariri e oggi suo figlio Saad: e cittadini di tutte le confessioni e classi sociali rivendicano invece un Libano non più gestito come un'impresa privata. La seconda dimensione è il conflitto con Israele: e coinvolge quanti non intendono affidare la difesa e resistenza all'esercito libanese o all'Unifil. I caschi blu sono qui in missione temporanea da trent'anni: nelle università si insegna che il loro obiettivo è congelare un conflitto: Unifil non ha ottenuto neppure questo, Israele ha continuato ad attaccare. La via per la stabilità è la soluzione della questione palestinese. Anche se la verità è che il Libano non potrà mai emanciparsi con questo sistema comunitario che invade ogni spazio pubblico, e le varie confessioni facile preda di potenze straniere. Siamo da sempre uno stato a sovranità condizionata. Solo per un breve momento, con l'indipendenza, abbiamo saputo essere un crocevia di scambio e dialogo, né Oriente né Occidente. Il sistema comunitario ha genetica totalitaria, richiede identità e fedeltà assolute. La stabilità passa attraverso la sua eliminazione. Ma nella forma attuale di occidentalizzazione del mondo, la globalizzazione non fa che rafforzarlo, generando chiusura e difesa.


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