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martedì 8 luglio 2014

Carlos Eddé. Il Libano visto da un "brasiliano" (del 15 gennaio 2013)

Carlos Eddé, leader del partito Blocco Nazionale, è il discendente di una delle più importanti dinastie politiche libanesi, gli Eddé appunto. Suo nonno Emile è stato un importante uomo politico ed ex-presidente del Libano durante il Mandato francese. Suo zio, Raymond, e suo padre, Pierre, sono stati personaggi politici di grande rilievo. Con la morte dello zio, nel 2000, Carlos, cresciuto in Brasile, si è trovato senza volerlo catapultato nell'arena politica del paese dei cedri. Il suo essere in un certo senso un “estraneo”, gli consente di avere uno sguardo più distaccato sul paese. Lo intervistiamo per conoscere il suo parere su tre temi di grande attualità: il Dialogo Nazionale, il dibattito sulla riforma della legge elettorale e gli eventi siriani.  

Secondo lei, qual'è il principale ostacolo che blocca le trattative sul tavolo del Dialogo Nazionale (DN)? Bisogna fare un passo indietro e tornare agli inizi. Il DN era stato utilizzato, poco tempo dopo la “Rivoluzioni dei Cedri” (2005), da Nabih Berri per insabbiare la questione dell'impeachment dell'allora presidente della Repubblica Emile Lahoud. Io avevo fatto parte della commissione che se ne occupava. Nabih Berri ha fatto virare la discussione del Dialogo Nazionale sul tema delle armi di Hezbollah, facendo passare in secondo piano l'impeachement. Nel 2006 Hezbollah ha provocato la guerra contro Israele, distogliendo l'attenzione dal DN. Proprio durante una delle riunioni del DN, Hassan Nasrallah aveva dichiarato che non ci sarebbero state operazioni militari contro gli israeliani durante l'estate. Una settimana dopo siamo stati tutti colti di sorpresa. Quando si è tornati al tavolo del DN, la questione delle armi era diventata quella della “strategia di difesa nazionale”, ancora una volta per rigirare la frittata. Hezbollah (ed i suoi alleati), per studiare delle concessioni sulle armi, avevano chiesto in cambio l'elaborazione di riforme strutturali che portassero la struttura politica del paese verso un “triumvirato” (cristiani, sunniti, sciiti) e superassero l'attuale ripartizione dei poteri (50-50) tra cristiani e musulmani. La coalizione 14 marzo ha rifiutato tale condizione.  

Qual'è allora lo scopo del DN secondo lei? In generale, ogni volta che viene riesumato il DN è perché vogliono (8 marzo) insabbiare o bloccare qualche questione. Perché fare appello al DN quando c'è un Parlamento e cioè un luogo istituzionale deputato al dialogo politico nazionale? E perché dialogare con forze che non rispettano quegli impegni che hanno preso proprio al tavolo del DN? In seguito ci sono stati gli scontri del 7 maggio 2008 ed il “Diktat” di Doha (dopo il quale il BN lascia il 14 marzo).  

Perché ha lasciato la coalizione 14 marzo? Quali sono gli errori della coalizione per quanto riguarda il DN? Il mio rimprovero al 14 marzo, dal punto di vista della negoziazione con l'8 marzo, era quello di vendere ad un compratore che ha la reputazione di non pagare. Il DN fa parte della strategia “win-win” dell'8 marzo. Questi, chiamando al dialogo il 14 marzo, “vincono” in ogni caso. Se il 14 marzo accetta il dialogo vengono messi in un angolo (perché sulla questione delle armi solo Hezbollah ha l'ultima parola) e se non accettano vengono accusati di non volere il dialogo. Inoltre, c'è la questione degli attentati politici i cui sospettati ruotano intorno ad Hezbollah, compreso l'ultimo, quello del 19 ottobre in cui è rimasto ucciso Wissam al-Hassan. Perché cercare il dialogo con chi rifiuta di consegnare al Tribunale Speciale i 4 sospetti dell'attentato a Rafiq Hariri? Con chi non può decidere direttamente delle proprie azioni (perché controllato dall'Iran)? Ed infine, perché cercare il dialogo con una forza politica che è armata? 

Questa sua posizione rispetto ad Hezbollah è emersa anche in un recente articolo, nel quale lei ha criticato l'apertura che il patriarca maronita Bechara al-Rai ha fatto verso il partito sciita. Per quale motivo Hezbollah non sarebbe un interlocutore politico credibile? Se si torna alle dichiarazioni degli esponenti di Hezbollah, se si legge il libro scritto dal numero due del partito, lo sheikh Naim al-Qassem, si scopre che si dice nero su bianco: che Hezbollah è parte integrante della Rivoluzione iraniana; che la leadership è nominata dalla Rivoluzione iraniana; che il partito è subordinato alla Guardia rivoluzionaria (iraniana); ed infine, che tutte le decisioni più importanti sono prese, in ultima istanza, unicamente dalla Guida suprema della Rivoluzione iraniana. Quando si parla ad un partito che ha una leadership, degli ordini, dei finanziamenti, delle armi, una dottrina, ecc. che provengono direttamente dall'Iran...beh non si sta parlando ad un interlocutore libanese, si sta parlando con l'Iran. Hezbollah è uno strumento di politica strategica della Rivoluzione iraniana in Libano. Dunque non esiste dialogo possibile. L'unico tema sul quale avrebbe senso dialogare sono le armi, perché in presenza di armi non esiste un reale dialogo, non esiste una reale competizione elettorale.  

Nel 2009, il suo partito BN ha lasciato la coalizione 14 marzo. In alcune interviste lei ha lasciato intendere che i suoi ex alleati politici hanno “tradito” i principi e gli ideali che avevano animato la “Rivoluzione dei Cedri” nel 2005, in seguito alla quale la coalizione si era formata. Quali sono i problemi che l'hanno allontanata dalla coalizione 14 marzo? La coalizione 14 marzo si trova di fronte a due principali problemi: il primo è un problema strutturale dell'alleanza stessa. Questa è stata costruita contro qualcosa e non per qualcosa o per l'attuazione di un programma comune. Questo significa che la coalizione ritrova la sua unità solo se di fronte ad un pericolo imminente, altrimenti le sue varie componenti (molto diverse politicamente tra loro) vanno ognuna per conto proprio. Questa dinamica si è verificata diverse volte. La prima volta all'indomani della “Rivoluzione dei Cedri”, in occasione delle elezioni del 2005. Le forze politiche del 14 marzo hanno costruito le loro alleanze elettorali frammentandosi e senza costituire un blocco elettorale unitario. Ingenuamente hanno pensato che tendendo la mano ad Hezbollah potevano allontanarlo dalla Siria. Cadono sempre nelle stesse trappole. Non imparano mai dai loro errori. Inoltre, non hanno tenuto conto di una componente importante della coalizione, le forze della società civile (che hanno partecipato attivamente alla “Rivoluzione dei Cedri”), che non fanno parte dei partiti principali e che non ne condividono i programmi. Insomma sono incapaci di fare un piano e perseguirlo. Sanno solo fare una politica in reazione a qualcos'altro o di approfittare di situazioni contingenti com'è il caso adesso con ciò che succede in Siria.  

Per quanto riguarda il dibattito sulla riforma della legge elettorale, le proposte di legge sotto le quali si potrebbero tenere le prossime elezioni sono: quella del 1960 tornata in vigore con gli accordi di Doha nel 2008 (sistema maggioritario di lista ad un turno e 24 circoscrizioni elettorali); il disegno di legge approvato dal governo e discusso in commissione parlamentare (sistema proporzionale e 13 circoscrizioni elettorali); la proposta dei partiti conservatori cristiani, Forze libanesi e Partito Falangista (sistema maggioritario di lista ad un turno e 50 circoscrizioni elettorali); e la cosiddetta proposta “greco-ortodossa”, (sistema proporzionale, una sola circoscrizione per tutto il paese e l'abolizione del principio del collegio elettorale unico, cioè ogni cittadino può votare solo per i seggi destinati alla propria comunità d'appartenenza). Ci può fare un'analisi delle diverse alternative? Per quanto riguarda il Libano, prima di tutto bisogna precisare che qualsiasi sia la legge elettorale questa è falsata dal fatto che noi viviamo in un regime confessionale (come previsto dalla Costituzione libanese, le cariche politiche e dell'amministrazione pubblica, sono distribuite tra le principali comunità religiose, secondo un rapporto di 50-50 tra cristiani e musulmani,). L'accordo di Taif ha attribuito alle comunità cristiane la metà dei poteri pubblici, compresa la metà dei seggi del Parlamento. Dunque la competizione elettorale si gioca attraverso queste variabili. Il sistema maggioritario di lista ad un turno, qualsiasi sia il numero delle circoscrizioni, pone il problema delle liste elettorali. Quelle che io chiamo gli “autobus” elettorali, sono liste che aggregano in una certa circoscrizione personalità che spesso non hanno nulla in comune, il cui unico scopo è quello di avvantaggiarsi dei voti degli altri appartenenti alla lista (l'elettore vota la lista di cui fa parte il candidato). Questo sistema provoca delle ingiustizie e delle iniquità perché: da un lato, l'elettore votando un membro della lista si trova obbligato a votarne altri che non voterebbe altrimenti; dall'altro, i candidati si trovano ad essere dipendenti, non dal voto dell'elettore, ma dai leader della lista (normalmente coloro che dispongono del maggiore bacino di voti all'interno della lista), di cui sfruttano la forza elettorale, ed ai quali devono obbedienza una volta eletti. Questo sistema è una catastrofe. È un sistema ideale per i potenti che si fanno pagare ingenti somme per inserire un candidato nella loro lista. Inoltre, con questo sistema i candidati outsider vengono facilmente tenuti ai margini. Il sistema proporzionale è complicato da applicare al sistema confessionale. Normalmente ogni partito procede, all'interno della sua lista, ad una classificazione dei suoi candidati. La distribuzione confessionale dei seggi complica le cose. Tra l'altro non è stata fatta ancora la simulazione matematica per determinare le attribuzioni dei seggi con questo sistema. Inoltre, nella situazione attuale, in cui certe forze politiche possiedono delle armi, si rischia che queste forze possano, attraverso la coercizione, ottenere molti voti. La cosiddetta proposta “greco-ortodossa” non è altro che la proposta di Elie Ferzli (uomo politico libanese vicino al regime siriano), un agente siriano, e non serve ad altro che a dividere il paese. Questa proposta ha l'effetto di tranquillizzare le comunità cristiane che vedono in essa la possibilità di poter scegliere direttamente i propri candidati. Di fatto provoca l'estremizzazione in senso comunitario del Parlamento. Questo perché con l'abolizione del sistema del collegio elettorale unico, il discorso politico si estremizzerà in senso comunitario, perché per un candidato, la sua elezione non dipenderebbe più dai voti dei connazionali membri di un'altra comunità. Questo sistema è catastrofico per i cristiani anche per un secondo motivo, perché farà delle elezioni un censimento indiretto, che rivelerà il reale peso politico dei cristiani in Libano. Questo potrebbe legittimare le pretese, delle comunità musulmane, di revisione della distribuzione delle quote comunitarie. Dunque tutti questi sistemi non funzionano. 

Qual'è la sua proposta? Il sistema che sarebbe meno nocivo, per una società come quella libanese, è il sistema della circoscrizione uninominale a doppio turno (sistema uninominale a doppio turno, 128 circoscrizioni, una per ogni seggio parlamentare da attribuire). Prima di tutto, in un tale sistema, le circoscrizioni non devono per forza essere uguali per numero di elettori, in Francia non lo sono, in Gran Bretagna non lo sono, ecc. Secondo, c'è una maggiore intesa inter-comunitaria su scala locale piuttosto che su quella nazionale. Semplicemente perché gli abitanti di una stessa area, qualunque sia la loro comunità d'origine, vanno nelle stesse scuole, negli stessi supermercati, negli stessi cinema, insomma si conoscono. Terzo, è l'unico sistema che obblighi gli eletti a dover render conto agli elettori. Infine, questo sistema rende più difficile la frode elettorale. Visto che le circoscrizioni comprenderebbero un numero ridotto di elettori, dunque di voti, questi sarebbero più facilmente controllabili. Stranamente di questo sistema elettorale non si è mai parlato in Libano. Credo faccia paura a molti. Con un tale sistema molti di coloro che sono stati eletti nel 2009 sarebbero fuori dal Parlamento. Inoltre, l'influenza dei capilista, dei potenti locali, sarebbe ridotta di molto.  

Si presenterà alle prossime elezioni (giugno 2013)? Preferisco non rispondere alla domanda. Non so ancora sotto quale legge elettorale si svolgeranno. È come se mi chiedesse di giocare ad un gioco di cui non conosco le regole.  

Per quanto riguarda la Siria, che idea s'è fatto della situazione? In generale, quando si verifica una rivoluzione, si parte da una reazione popolare, di cui approfittano, in un momento successivo, altre forze. Se si guarda ad esempio alla rivoluzione francese, questa è partita a causa del malcontento popolare per le difficili condizioni di vita. In un secondo momento gli ideologi hanno preso in mano la situazione. Stesso discorso per la rivoluzione iraniana (in un secondo momento i religiosi hanno preso in mano la situazione). In Siria la rivoluzione era inevitabile per diverse ragioni. Primo, le condizioni di vita dei siriani non sono mai migliorate. Secondo, la dominazione di un regime dittatoriale e violento è divenuta insopportabile. Terzo, il carattere arabo, per cui chi è al potere non può fare delle concessioni perché segno di debolezza. Ed infine, il sentimento che le situazioni possano durare in eterno. Com'è iniziata in Siria? Piccoli gruppi, isolati, hanno cominciato a rivendicare delle riforme e per questo sono stati violentemente repressi. Ma, più violenta era la repressione, maggiore era il numero di siriani coinvolti. Cosicché questo circolo di rivendicazione e repressione ha coinvolto un numero crescente di siriani, facendo effetto domino. Io conosco dei siriani che prima del marzo 2011 erano convinti sostenitori del regime e che col tempo si sono progressivamente avvicinati alla rivoluzione, e sto parlando di persone che appartengono all'alta borghesia siriana (che faceva affari col regime). Il regime pensava di potere ripetere i massacri del 1982 (nel 1982, ad Hama, il regime di Hafez al-Asad, schiaccia una rivolta guidata dai fratelli musulmani facendo decine di migliaia di vittime). Al giorno d'oggi, con i progressi fatti dalla tecnologia nel campo dell'informazione, non è più possibile distruggere una cittadina senza che il villaggio a fianco non ne sappia nulla. Credo quindi alla spontaneità della rivoluzione siriana nelle fasi iniziali. Col tempo però stanno prevalendo quelle forze che, per quanto minoritarie, sono più strutturate ed unitarie, perché coagulate intorno ad una dottrina forte di matrice religiosa.  

Quali crede che siano le priorità degli attori internazionali e regionali, relativamente alla situazione siriana? Per Israele la prima scelta sarebbe il mantenimento del regime alauita, perché suo alleato. Se questo dovesse cadere, la seconda opzione per Israele sarebbe lo smembramento della regione. In generale, le potenze straniere stanno manifestando una tendenza a voler lasciare la situazione marcire. Che interesse avrebbe la Russia a sostenere questo regime, sapendo che questo non può durare eternamente, se non quello di prendere tempo per lasciare marcire la situazione? Qual'è l'interesse di Israele se non quello di avere un medio oriente fatto di comunità in conflitto tra loro, piuttosto che di paesi strutturati che potrebbero avanzare pretese alle Nazioni Unite o divenire una minaccia alla sua sicurezza. D'altra parte Israele ha sempre preferito avere a che fare con gli estremisti. Per esempio in occasione della seconda intifada, Israele ha colpito l'Olp ed ha lasciato stare Hamas. É più facile dire di no a degli estremisti. Per tornare alla Siria, non credo alla teoria del complotto. Non credo che gli Stati Uniti abbiano questo potere di manovrare il mondo. Credo però che questi possano sfruttare una situazione che si viene a creare spontaneamente. Non credo nell'ipotesi di un intervento. La situazione economica dei paesi occidentali non è così florida e la memoria del fallimento in Iraq è ancora forte. Entrare in Iraq, occupandolo, è stato facile. Il difficile è stato uscirne, senza parlare del come era ridotto il paese una volta lasciato. In Libano, il Blocco Nazionale è stata la sola voce che si è opposta fin da subito all'intervento in Iraq. 

Un'ultima domanda più personale. Lei è nato in Libano, ma ha vissuto la maggior parte della sua vita in Brasile. Nel 2000, in seguito alla morte di suo zio, viene richiamato in Libano per succedergli alla testa del BN. All'improvviso si è trovato catapultato nella vita politica libanese. Da un punto di vista personale, come ha vissuto questi cambiamenti? Sebbene sia il pronipote di uno dei padri fondatori del Libano (Emile Eddé), il figlio ed il nipote di ex-deputati ed ex-ministri (Pierre e Raymond), sono stato cresciuto nel rifiuto della politica. Mio padre e mio zio mi hanno sempre scoraggiato dall'impegnarmi nella politica libanese. Quando mio zio è morto il partito non aveva un “numero due”. Quella libanese è una società fortemente clanica. Visto che ero il solo discendente che portava ancora il nome della famiglia, 17 ore dopo la morte di mio zio, senza che io ne sapessi niente, ero stato nominato alla testa del partito. La mia prima reazione è stata di rifiuto. Ho accettato, in seguito, solo perché la mia doveva essere una leadership di transizione, per dare il tempo al partito di preparare la successione. Sono 12 anni che sto aspettando un successore. Certamente tutto ciò mi ha stravolto la vita. Sono stati cambiamenti a cui non ero preparato e che non volevo. Mi sento più brasiliano che libanese e vengo dal settore privato. Il vantaggio della mia situazione è che mi permette di avere uno sguardo più distaccato sulla politica libanese ed un più ampio margine di libertà politica.

domenica 20 marzo 2011

La Seconda Rivoluzione dei Cedri?

La coalizione "14 marzo" per celebrare il sesto anniversario della Rivoluzione dei Cedri (14 marzo 2005), chiama il proprio popolo a radunarsi in massa come sei anni fa in Piazza dei Martiri nel centro di Beirut. Questa volta non per chiedere il ritiro delle forze siriane dal territorio libanese, ma per dire “NO!” alle armi “illegittime” di un avversario interno, Hezbollah.

Beirut, 13 marzo 2011 - Sono appena le prime ore del giorno, quando si cominciano a sentire in lontananza i primi segni della giornata che sarà. Il clima è perfetto, cielo terso e sole primaverile. Dalle 9.00 inizia un crescendo di clacson, di megafoni, di cori e di vociare. Il popolo del 14 marzo ha cominciato ad affluire verso piazza dei Martiri dove tutto è stato attrezzato già dal giorno prima per celebrare il sesto anniversario della Rivoluzione dei Cedri. A partire dalle 11.00 sono previsti, in ordine di importanza, gli interventi di vari leader ed esponenti della coalizione in un climax che avrà il suo culmine col discorso di Saad Hariri, primo ministro fino al 12 gennaio scorso, ora in carica ad interim.

Avvicinandosi alla piazza aumenta la concentrazione delle forze di polizia e dell'esercito che per evitare disordini hanno blindato la piazza con posti di blocco (utilizzando i carri armati) già a qualche centinaio di metri dall'ingresso della stessa. La piazza è tutta transennata e per accedervi bisogna passare per una perquisizione. Non solo, i leader si rivolgeranno alla piazza protetti da una schermatura in vetro antiproiettile che li dividerà dai loro sostenitori. Insomma nulla o quasi è lasciato al caso.
Una volta passati i controlli si apre davanti agli occhi una piazza carica di sole, persone e bandiere. Intorno al milione di presenze, si dirà poi, provenienti da tutto il Libano, ma anche dall'estero, dai paesi della diaspora libanese (Francia, Canada, Gran Bretagna, Stati Uniti, Costa d'Avorio, ecc.).
A prevalere sono le bandiere del Libano, ma non mancano bandiere di partito, quelle azzurre del movimento di Hariri Tayyar al-Mustaqbal (Corrente del Futuro), bandiere falangiste (del partito Kataeb), bandiere delle Forze Libanesi (partito di Samir Geagea) e un po' a sorpresa si intravedono alcune bandiere del Partito Socialista Progressista (partito druso) a testimoniare una seppur piccola, ma significativa fedeltà della comunità drusa alla coalizione. Nei mesi scorsi infatti il leader del partito druso, Walid Jumblat, ha lasciato la coalizione 14 marzo per aggregarsi a quella dell'8 marzo (consegnando a quest'ultima, seppure per pochi deputati, la maggioranza parlamentare). C'è chi dice, maliziosamente, per evitare ritorsioni da parte di Hezbollah e/o della Siria, c'è chi dice per senso di responsabilità nazionale.

A vegliare sulla piazza ci sono le gigantografie dei volti dei Martiri della Rivoluzione dei Cedri: Rafiq Hariri, Samir Kassir, George Hawi, Gebran Tueni, Pierre Amine Gemayel, Walid Eido, Antoine Ghanem. Uomini politici e giornalisti tutti assassinati tra il giugno 2005 ed il settembre 2007.

La parola d'ordine di questa giornata è “NO!” (“LA!” in arabo). “LA!” si legge sulle magliette e sui berretti di numerosi presenti. No alle armi che non siano quelle dell'esercito regolare libanese, no ai ricatti delle milizie armate (chiaro riferimento al partito/milizia sciita Hezbollah), no all'abbandono da parte del prossimo governo dell'intesa stipulata con l'ONU per il Tribunale Speciale per il Libano (TSL), no alla strategia stragista mirata ad eliminare personaggi scomodi della politica e della cultura che ha caratterizzato il recente passato del paese, no all'influenza delle potenze straniere nella vita politica libanese (Iran, Siria, ma anche Israele).

Dopo una serie di interventi da parte dei leader dei partiti minori e di altri esponenti della coalizione, tra cui Elias Atallah, della Sinistra Democratica (partito che ha tra i suoi fondatori uno dei martiri il giornalista Samir Kassir, ucciso nel giugno del 2005), Sebouh Kalbakian del partito della comunità armena Henchak e Dory Chamoun del Partito Liberale Nazionale, è stata la volta dei big.


Ad aprire le danze è Samir Geagea, il “Dottore” (Hakim), come viene chiamato qui, carismatico e controverso leader delle Forze Libanesi, nonché ex warlord condannato all'ergastolo per aver ordinato quattro omicidi politici durante la guerra civile (tra cui quello dell'ex premier Rashid Karami) e in libertà grazie ad un'amnistia votata dal Parlamento appositamente per lui nel luglio 2005.
Un grande boato della folla segue l'annuncio del suo arrivo sul palco, seguito dal coro “HAKIM! HAKIM!” che contagia tutta la piazza.
Geagea scalda i presenti annunciando una Seconda Rivoluzione dei Cedri, questa volta non diretta all'allontanamento di un nemico esterno dal territorio libanese (all'epoca le forze siriane), ma contro un nemico interno armato, Hezbollah, e contro il suo “statelet”, Stato nello Stato.

Anche Amin Gemayel alla testa del partito falangista Kataeb (ex milizia), riafferma i principi della Rivoluzione dei Cedri. Secondo l'ex Presidente della Repubblica, Hezbollah ha dimenticato la sua funzione anti-israeliana, ha dimenticato le varie questioni territoriali causa di controversie tra i due paesi confinanti e ha rivolto verso l'interno il suo potenziale militare servendosene nella discussione politica come leva di ricatto costante. Il suo solo obiettivo, secondo Gemayel, è l'annullamento dell'intesa stipulata dal Libano con l'ONU sul TSL (che si suppone stia per accusare alcuni esponenti di primo piano del partito sciita), ma “noi vogliamo che il TSL faccia luce sulla verità”. Insiste ancora l'ex presidente affermando che “l'unità e la stabilità del paese non potranno mai essere realizzate senza che le armi illegittime vengano rimosse”. Solo così è possibile “salvare il Libano e costruire lo Stato”.

Nell'attesa del leader della coalizione, Saad Hariri, vengono srotolati lungo i due lati dell'edificio del Virgin Megastore, alle spalle del palco, due enormi teli. Da un lato la bandiera libanese, dall'altro una gigantografia del sovrano saudita Abd Allah bin Abd al-Aziz Al Saud a ribadire, se ce ne fosse bisogno, chi c'è dietro alla famiglia Hariri e al sostegno alla comunità sunnita libanese.

La musica annuncia l'imminente arrivo di Saad Hariri e partono i cori “Saad! Saad!” sulla scia dei quali fa il suo ingresso trionfale il quarantenne figlio dell'ex premier Rafiq Hariri (ucciso sei anni fa in un attentato e sul cui assassinio sta investigando il già citato Tribunale Speciale per il Libano). La piazza si scalda per la presenza sul palco del suo leader e per il sole già pienamente primaverile nonostante sia appena metà marzo. Hariri con un gesto che si addice più ad una rockstar che ha un capo di partito si toglie la giacca e si rimbocca le maniche, la folla apprezza ed esulta. Faticando a sovrastare con la sua voce gli incitamenti della folla comincia il suo discorso. E' “impossibile che le armi sconfiggano un popolo che chiede verità, giustizia e democrazia”. “Noi non rinunceremo alla nostra libertà, alla democrazia e alla Costituzione” e aggiunge che tutte le armi fuori dal controllo dello Stato devono essere consegnate all'esercito, questo “Non è impossibile!”. “Ciò che vogliamo è che sia l'esercito libanese a difenderci da Israele” e non Hezbollah. Al contrario, insiste Hariri, “impossibile è che qualcuno mantenga la propria poltrona per venti anni”, facendo riferimento a Nabih Berri leader di Amal (movimento sciita che fa parte della coalizione 8 marzo) da venti anni Presidente della Camera. “Accettate armi che siano fuori dal controllo dello Stato? Accettate un governo che cerchi di eliminare il TSL?” Saad Hariri incalza la piazza che euforica ad ogni domanda risponde all'unisono con un secco “NO!”. E ancora “Accettate che il Libano sia in mani straniere?” (alludendo all'Iran e alla Siria). “Avete sentito loro (8 marzo) dire ancora una volta che (ottenere ciò che rivendichiamo) è impossibile. Ma questo non funzionerà perché già sei anni fa, quando Rafik Hariri fu martirizzato e ci siamo riuniti in questa piazza, sapevamo che nulla è impossibile" ribadisce Hariri.

Terminato il discorso il leader sunnita saluta il suo popolo e lo invita a seguire il corteo di auto (dei SUV blindatissimi) con cui si allontanerà dalla piazza, per un ultimo bagno di folla. La piazza risponde accerchiando il corteo di vetture parcheggiate dietro al palco per salutare il proprio beniamino. Poi tutti tornano a casa, chi a piedi, chi in macchina, chi a bordo di un autobus sgangherato; stanchi, ma soddisfatti per le parole di fermezza che hanno sentito pronunciare dai propri leader.

L'unico “incidente” della giornata viene registrato in serata nella regione della Bekaa dove alcuni giovani hanno bloccato le strade dando fuoco ad alcuni pneumatici per ostacolare il rientro di coloro che tornavano da Beirut. Una piccola provocazione che non ha macchiato una giornata sostanzialmente di festa.

Ghigo Orson Galera

Libano: rischio guerra civile?

Con l'approssimarsi della pubblicazione dell'atto d'accusa del Tribunale Speciale per il Libano (TSL) ed il protrarsi della crisi politica, si moltiplicano le espressioni di preoccupazione per la situazione libanese da parte di capi di stato e di governo, dei media nazionali ed internazionali e dei comuni cittadini.
Nei “Service” (taxi libanesi), nei caffè, tra amici, la domanda che domina le discussioni è se questa crisi porterà ad uno scontro tra comunità (o addirittura ad una nuova guerra civile) oppure se al contrario si risolverà attraverso una pacifica mediazione politica.

Ma quali sono le ragioni di tale crisi politica? Cos'è il Tribunale Speciale per il Libano (TSL) ? Chi trarrebbe vantaggio da una degenerazione militare della crisi politica? C'è davvero da preoccuparsi per una guerra civile?

Le ragioni della crisi, riassunto delle puntate precedenti
La crisi politica libanese dipana lentamente la sua matassa, anche se il nodo che deve venire al pettine è ancora lontano dall'essere sciolto. Il nodo si chiama TSL, il pomo della discordia al centro del dibattito politico libanese ormai da più di un anno e mezzo, cioè da quando è trapelata la notizia (pubblicata nel maggio del 2009 dal quotidiano tedesco Der Spiegel e ripresa da un reportage della CBC canadese nel novembre 2010), che nell'atto d'accusa del procuratore canadese Bellemare (incaricato di investigare sull'attentato in cui ha trovato la morte l'ex premier Rafiq Hariri insieme ad altre 22 persone il 14 febbraio 2005) sarebbero presenti i nomi di alcuni esponenti di primo piano del partito/milizia sciita Hezbollah (letteralmente “Partito di Dio”). Da luglio scorso è iniziato un braccio di ferro tra le due coalizioni 14 marzo (Saad Hariri) e 8 marzo (Hezbollah) sul TSL, con relativa crisi politica che ha bloccato l'attività del governo Hariri (Saad, figlio di Rafiq) e che si è concluso con lo scioglimento dello stesso il 12 gennaio scorso a seguito delle dimissioni di 11 ministri, 10 della coalizione 8 marzo (Hezbollah, Amal, e il Movimento Patriottico Libero di Michel Aoun) e di uno tra i cinque nominati dal presidente Sleiman (la Costituzione libanese prevede lo scioglimento automatico del governo nel caso in cui più di 1/3 dei ministri si dimettano, in questo caso 11 su 30). Parallelamente, una fantomatica quanto apparentemente inefficace trattativa è stata condotta a livello internazionale tra Siria ed Arabia Saudita per mediare tra le parti ed evitare il peggio (nuovi scontri inter-comunitari come accaduto nel maggio 2008). Altre polemiche hanno accompagnato le consultazioni che hanno portato alla formazione della nuova maggioranza parlamentare, questa volta pro-8 marzo, e la designazione del nuovo primo ministro il sunnita Najib Miqati (imprenditore, uomo tra i più ricchi del paese).
Il primo ministro uscente, Saad Hariri (14 marzo), da un lato, ha accusato Miqati di tradimento perché eletto deputato nel 2009 tra le fila della sua stessa coalizione e perché troppo accondiscendente verso le richieste di Hezbollah relative all'abbandono da parte del governo dell'intesa sul TSL stipulata con l'ONU. Dall'altro, accusa l'8 marzo di essere responsabile di un colpo di stato consumatosi con la caduta del governo e la rottura di fatto dell'accordo di Doha del 2008. Miqati risponde dichiarando che il suo non sarà un governo di parte, ma “consensuale” (cioè rappresentativo di tutte le componenti comunitarie), inoltre lascia aperta la prospettiva di un governo tecnico visto che il 14 marzo ha già avvertito che non parteciperà al prossimo governo. L'8 marzo afferma invece di aver agito nell'ambito democratico delle facoltà che gli sono consentite dalla Costituzione in quanto opposizione e rinvia al mittente le accuse di colpo di stato. Negli ultimi giorni la coalizione di Hariri ha lasciato intendere di voler aprire margini di dialogo per la formazione del nuovo governo, tant'è che Amin Gemayel (cristiano maronita), leader del partito falangista (Kataeb, coalizione 14 marzo) ha dichiarato di “Voler dare una chance al governo Miqati” anche se, ha ribadito, che in ogni caso si adeguerà alla decisione presa all'interno della coalizione. Nel frattempo è cominciata la spartizione dei ministeri ancora tutta da definire. In pole position, con le loro richieste e pressioni, ci sono Michel Aoun per il Ministero degli Interni (leader del Movimento Patriottico Libero, cristiano) e Nabih Berri (Presidente della Camera e leader di Amal, sciita) entrambi della coalizione 8 marzo.

Cos'è il Tribunale Speciale per il Libano ?
Il TSL è un organismo delle Nazioni Unite creato ad hoc, su richiesta del governo libanese, per investigare sull'attentato dinamitardo in cui il 14 febbraio del 2005 ha trovato la morte l'ex-premier libanese Rafiq Hariri insieme ad altre 22 persone. Inoltre la giurisdizione del tribunale può essere estesa agli attentati avvenuti in Libano tra il 1 ottobre 2004 ed il 12 dicembre 2005.

Il TSL presenta alcuni punti non chiari che interessano principalmente tre aspetti: la sua legalità internazionale, la sua costituzionalità interna e l'autenticità degli intenti di coloro che ne hanno promosso la creazione.

I dubbi sulla legalità internazionale del TSL concernono la competenza di un tribunale internazionale a giudicare di un crimine che dovrebbe essere materia di giurisdizione interna di uno Stato sovrano. Il TSL rappresenta un'eccezione rispetto ai tribunali internazionali istituiti nel passato proprio nel suo mandato. Per il diritto internazionale, la competenza di tali tribunali riguarda i cosiddetti crimina iuris gentium come il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra e il crimine di aggressione. L'attentato a Rafiq Hariri non appartiene a nessuna di queste categorie.

Per quanto concerne la legalità interna, i dubbi riguardano il rispetto della Costituzione libanese che prevede all'art. 52 che i trattati internazionali siano negoziati dal Presidente della Repubblica in accordo col Primo Ministro e che vengano ratificati dal Consiglio dei Ministri e dal Parlamento.
Innanzitutto, l'accordo col quale è stato istituito il TSL non è stato ratificato dal Parlamento per l'opposizione del Presidente della Camera Nabih Berri che si è rifiutato di convocare la seduta. Il primo ministro dell'epoca Fouad Siniora ha dunque semplicemente inviato una lettera al Segretario Generale dell'ONU nella quale affermava che, nonostante la mancata votazione, era stato informato che la maggioranza dei parlamentari si era dichiarata favorevole all'istituzione del tribunale e dunque sollecitava una rapida adozione delle azioni necessarie alla sua creazione.
Inoltre tale accordo è stato ratificato il 23 gennaio 2007 da un Consiglio dei Ministri privo della sua componente sciita contrariamente a quanto dispone la Costituzione (6 ministri sciiti si erano dimessi alla fine del 2006 a seguito della crisi di governo provocata dall'aggressione israeliana del luglio-agosto dello stesso anno). Il Libano è un paese nel quale convivono 18 diverse comunità confessionali. La sua Costituzione prevede che in ogni organismo statale, a livello politico o amministrativo, siano rappresentate tutte le componenti comunitarie. Qualsiasi accordo siglato da un governo privo di una di queste è dunque da ritenersi un atto quantomeno di dubbia costituzionalità.

Per quanto riguarda poi l'autenticità degli intenti dei promotori del tribunale, anche questa lascia numerosi dubbi. Il TSL è nato su richiesta del primo ministro Fouad Siniora, con lo scopo di aiutare il Libano a cercare la verità sull'attentato a Rafiq Hariri e assicurare i responsabili alla giustizia.
Il Libano è un paese che è uscito solo nel '90 da una sanguinosa guerra civile durata 15 anni, durante la quale è stato devastato dai bombardamenti e che ha visto nel paese consumarsi atrocità di ogni genere le cui cicatrici sono ancora oggi evidenti nella società libanese e sulle mura degli edifici di Beirut. Dunque, perché non creare un tribunale per investigare sui crimini compiuti e giudicare i criminali della guerra civile? Perché non chiudere una volta per tutte questa pagina dolorosa che è stata di gran lunga la più significativa della recente storia libanese e che indubbiamente sarebbe materia di competenza di un tribunale internazionale? Il problema è che i leader delle milizie responsabili dei crimini sono tutti in parlamento o nel governo.
Secondo, il 18 luglio 2005, solo qualche mese dopo l'attentato, e solo qualche mese prima che il governo libanese inviasse all'ONU una formale richiesta per la creazione di un tribunale (13 dicembre 2005), il parlamento libanese, lo stesso parlamento che aveva dato la fiducia al governo di Rafiq Hariri, ha votato una legge di amnistia grazie alla quale Samir Geagea (leader di una delle milizie che hanno insanguinato il Libano durante la guerra civile), condannato all'ergastolo, è stato liberato. Geagea (maronita) è attualmente in parlamento e leader del partito Forze Libanesi alleato della coalizione 14 marzo.

Chi trarrebbe vantaggio da una degenerazione militare della crisi politica?
Una tra le macroscopiche anomalie della vita politica libanese è rappresentata dal fatto che Hezbollah, oltre ad essere un partito dell'arco parlamentare che interagisce con le altre forze nel “normale” dialogo democratico, è anche una milizia, l'unica a non avere ufficialmente consegnato le armi dopo la guerra civile. In realtà più che una milizia si tratta di un vero e proprio esercito, più attrezzato (dall'Iran con la complicità della Siria) ed organizzato dello stesso esercito regolare, tanto da essere riuscito a respingere nel luglio-agosto del 2006 l'aggressione dell'esercito israeliano nel sud del Libano.
Il problema democratico che questa situazione pone sul piano interno è facilmente intuibile, è difficile dialogare alla pari con qualcuno che possiede una pistola e non esita a brandirla, ma anzi la mostra con fierezza e ne giustifica il possesso attribuendosi il ruolo di resistente, di difensore della patria. Ed è proprio per il suo ruolo di “Resistenza” anti-israeliana che tale presenza militare è stata finora tollerata. C'è però un precedente in cui le armi della Resistenza sono state rivolte contro altri libanesi e cioè in occasione degli scontri del maggio 2008 che hanno opposto i sostenitori di Hariri a quelli di Hezbollah (conflitto tutto interno alla comunità musulmana sunniti i primi, sciiti i secondi).
Tale potenza di fuoco garantisce a Hezbollah sul piano nazionale il controllo del sud del Libano e di aree di Beirut a maggioranza sciita, un vero e proprio "Stato nello Stato" che si occupa anche di costruire scuole, ospedali, ecc. Nel confronto con Israele essa costituisce un convincente fattore deterrente che garantisce, per ora, la “Pace” o sarebbe meglio dire la non-belligeranza.
In un tale scenario, nonostante Israele ed Hezbollah continuino costantemente a stuzzicarsi, sembra improbabile che una delle parti abbia una reale intenzione ad impegnarsi in un conflitto dall'imprevedibile esito. Aprire un fronte sud per Hezbollah significherebbe indebolirsi sul piano interno, proprio ora che è già alle prese con un faticoso braccio di ferro politico con gli avversari del 14 marzo. Israele è già stato sconfitto nel 2006 ed ha già il suo bel da fare e da preoccuparsi nel capire cosa sarà del futuro della regione ed in particolare dell'Egitto dopo le recenti rivoluzioni.
Per quanto riguarda la coalizione 14 marzo, nonostante le frizioni interne, sembra abbia già definito i suoi obiettivi cardine: il sostegno al TSL, una campagna per un non-weapon state (cioè il disarmo di Hezbollah) e la protezione dei beni libanesi pubblici e privati. Per ora questo complesso incastro di interessi sembra garantire la “stabilità” del Libano, almeno fino alla pubblicazione dell'atto d'accusa del TSL e spiega l'evoluzione politica attuale, il cambio di maggioranza e le difficoltà di Miqati nella costruzione di un governo consensuale.

C'è davvero da essere preoccupati per una ripresa della guerra civile?
Alla luce di quanto detto finora mi sento di sbilanciarmi verso una risposta negativa, che rimane però un modesto parere a cui si aggiunge il fattore dell'imprevedibilità mediorientale. Modesto parere confortato però da numerose opinioni raccolte qui a Beirut (giornalisti, analisti, amici/che, tassisti, cittadini comuni) secondo le quali, al massimo, si verificheranno scontri isolati un po' come nel 2008, ma niente di più.

Nell'attesa della pubblicazione dell'atto d'accusa ci si gode i caffè sul lungomare della Corniche ed il tiepido inverno libanese.

Ghigo Orson Galera