Democrazia e
totalitarismo
In “Democrazia e
totalitarismo” Raymond Aron si domanda quale sia “il principio di
un regime a partito monopolistico” o autoritario. Secondo
l'intellettuale francese una democrazia si fonda su principi quali il
“rispetto della legalità” e lo “spirito del compromesso”. Al
contrario un regime autoritario non può fondarsi su tali principi
perché il regime stesso “sarebbe minacciato di morte” se venisse
“corrotto” dallo “spirito democratico del compromesso”.
Secondo Aron, le fondamenta di un regime autoritario sono costituite
da due elementi principali: la fede e la paura. La fede
in un ideale di cui il regime si fa portatore; la paura
suscitata nella popolazione. Un ulteriore elemento sarebbe, secondo
Maurice Barrés, citato da Aron, la consapevolezza che il popolo ha
della propria impotenza rispetto alla possibilità di cambiamento.
Siria – Elezioni
presidenziali
Le recenti elezioni
presidenziali siriane sono state un primo passo verso la transizione
democratica del paese? Com'era ampiamente prevedibile, Bashar al-Asad
è stato rieletto, incassando un successo plebiscitario (l'88,7%).
Oltre alla ovvia reticenza a mollare il potere da parte del regime,
bisogna interrogarsi sulla situazione mediorientale nel suo
complesso. Chi potrebbe auspicare l'avvio di un reale processo di
democratizzazione in Siria? Il regime? Le potenze regionali - Arabia
Saudita, Iran e Israele - o quelle internazionali?
Democratizzazione
di Asad
Il clan al-Asad governa
la Siria con il pugno di ferro dal 1970. All'inizio del 2011, il
regime si è investito nell'opera di repressione violenta e
sistematica di un movimento di opposizione a lungo rimasto in
larghissima parte pacifico, rifiutando categoricamente di scendere a
compromessi sulla questione principale, il ruolo di Bashar al-Asad
nel futuro della Siria.
Al contrario, ha
perseguito in maniera unilaterale un programma di riforme tardive e
di facciata, quali l'abrogazione della legge d'emergenza (subito
sostituita da un'altra analoga, anti-terrorismo), la riforma sulla
libertà dei media (di fatto sempre sotto il controllo del regime) e
la modifica della Costituzione che, dopo oltre 40 anni di monopolio
baathista, ha introdotto nella carta fondamentale il pluralismo
politico. Quest'ultima riforma prevede inoltre la possibilità per
più candidati di competere per la presidenza (le elezioni
presidenziali sono sempre state un referendum di reinvestitura del
presidente in carica) e stabilisce i criteri di candidabilità degli
stessi - ad es.: aver risieduto in Siria per i 10 anni precedenti la
candidatura, il che esclude tutti gli oppositori in esilio all'estero
- che devono essere verificati dalla Suprema corte costituzionale.
Delle 23 domande di candidatura alla presidenza, la Suprema corte ne
ha approvate due, quelle di Hassan bin Abdullah al-Nouri (54 anni,
uomo d'affari di Damasco) e di Maher Abdul-Hafiz Hajjar (43 anni,
deputato indipendente di Aleppo), entrambi pressoché sconosciuti
all'opinione pubblica siriana.
Sguardo delle potenze
internazionali su Damasco
Perché le potenze
regionali e internazionali dovrebbero auspicare per la Siria una
transizione verso la democrazia?
Nella
guerra civile siriana si riflette, tra gli altri, anche il conflitto
tra Arabia Saudita e Iran che questi stanno combattendo all'interno
del paese attraverso gruppi affiliati (ad es.: Hezbollah ed i vari
gruppi islamisti sostenuti dai sauditi e da altre monarchie del
Golfo). Riyadh e Teheran, nemici per eccellenza, trovano però un
terreno d'intesa quando si tratta di evitare che si sviluppino nella
regione pericolosi esempi di democratizzazione. Anche per Israele,
che finora aveva trovato nel regime degli al-Asad il suo “miglior
nemico”, una Siria avviata verso un processo di reale
democratizzazione diventerebbe una scomoda incognita. Ad un altro
livello il conflitto vede contrapposti Stati Uniti e Russia. Lo
stesso al-Asad ha dichiarato in una recente intervista al quotidiano
libanese Al-Akhbar che “Putin, difendendo la Siria, ha voluto non
solo riaffermare la forte alleanza tra di noi, ma anche riequilibrare
un ordine internazionale che dalla disintegrazione dell'Unione
Sovietica fino all'elezione di Putin è stato dominato da un sistema
unipolare guidato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nella NATO”,
esplicitando così l'intenzione della Russia di mantenere nella
regione l'equilibrio internazionale precedente alla rivoluzione.
Come riassume bene
Muhammad al-Sadiq su Al-Araby Al-Jadeed, il fatto che
al-Asad dopotutto sia ancora al potere in Siria, e che Abdel Fattah
al-Sisi sia stato eletto presidente in Egitto, suggerisce che la
politica del “nessun vincitore, nessun perdente” stia di fatto
prevalendo e che, non solo da parte di Riyadh e Teheran, ci sia
l'intenzione di mantenere congelata la regione senza discostarsi dai
rassicuranti schemi tradizionali.
Da rivoluzione a
guerra civile
Inizialmente la
rivoluzione siriana era riuscita ad imporre parole d'ordine nuove e
precise: libertà, democrazia, giustizia sociale e dignità, nel
rispetto delle diversità religiose ed etniche, e dell'unità del
paese. A questi principi si rifacevano i comunicati dei gruppi
pacifici della prima ora quali ad esempio i Comitati locali di
coordinamento. Viceversa, le parole d'ordine imposte da subito dal
regime e successivamente dai gruppi infiltratisi, sono servite a
riportare il conflitto sui binari di contrapposizioni classiche:
imperialismo-resistenza, sunnismo-sciismo, autoritarismo
laico-fondamentalismo religioso, Oriente-Occidente.
Ciò che la rivoluzione
siriana ha prodotto di più “rivoluzionario”, cioè la sua
pacifica, democratica e laica ispirazione, sembra ormai
inevitabilmente schiacciato tra l'incudine ed il martello della
logica di forme antagoniste, ma egualmente autoritarie, di
imperialismo e di fondamentalismo religioso. Forze che stanno
riorientando la Siria verso vecchi e strumentali discorsi egemonici
di cui queste stesse forze si nutrono, imponendo alla popolazione la
convinzione che nessun cambiamento democratico sia possibile e che
ciò da cui stavano scappando sia in realtà il loro miglior rifugio.